La nuova guerra fredda ecologica, di Junko Terao

E se la nuova guerra fredda – di cui negli ultimi anni si è parlato molto, non senza ragioni ma forse in maniera un po’ esagerata – non vedesse schierati il mondo democratico contro i regimi autoritari ma ruotasse intorno a un nuovo asse imperniato sulla transizione energetica e la lotta al riscaldamento globale?
I contorni del conflitto geopolitico dal sapore novecentesco tra l’occidente a guida statunitense da un lato e la Cina a capo di un nuovo “asse del male”, per usare la retorica di Washington, dall’altro sbiadiscono via via che l’amministrazione Trump demolisce a picconate la democrazia statunitense e la sua reputazione nel mondo. Il discorso di Trump all’Assemblea generale dell’Onu è solo l’ultimo esempio di una deriva imbarazzante a cui da Pechino assistono con un secchiello di popcorn in mano.
Al contrario, l’intervento del presidente cinese Xi Jinping, che per la prima volta ha annunciato l’obiettivo di Pechino per la riduzione delle emissioni di gas serra, ha dimostrato che oggi sul clima “la Cina è l’adulto nella stanza”, come recita il titolo di un’opinione firmata da Li Shuo uscita sul New York Times.
L’impegno a ridurre tra il 7 e il 10 per cento le emissioni entro il 2035 è stato accolto con delusione in occidente, perché secondo gli esperti il principale inquinatore del pianeta dovrebbe sforzarsi di più per contribuire al raggiungimento dell’obiettivo stabilito con l’accordo di Parigi sul clima, cioè limitare il riscaldamento globale a +1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali.
Ma la prudenza della Cina non è una novità: meglio promettere poco e poi superare le aspettative, scrive Li, soprattutto considerando le difficoltà che la sua economia sta affrontando e il bisogno di combustibili fossili che ha la sua industria. E di fronte allo scarso impegno degli altri grandi paesi inquinatori, gli Stati Uniti in primis, seguiti dall’Europa, Pechino ha pochi incentivi a strafare sul piano delle promesse.
Il modesto impegno sui tagli alle emissioni è però bilanciato dalla incontestata leadership cinese nella produzione di tecnologia verde. La Cina produce l’80 per cento dei pannelli solari, il 75 per cento delle batterie per veicoli elettrici e più del 60 per cento delle turbine eoliche a livello mondiale. E non si tratta solo di prodotti per l’esportazione. Il paese conta la flotta più grande di veicoli elettrici al mondo e la più estesa rete ferroviaria ad alta velocità, oltre a essere al primo posto per l’impiego di autobus elettrici.
Lo racconta Nils Gilman, vicepresidente esecutivo del centro studi californiano Berggruen Institute, in un articolo uscito su Foreign Policy in cui propone la suggestione della “guerra fredda ecologica”. In sostanza, dice Gilman, la transizione energetica dai combustibili fossili alle energie rinnovabili non è solo una questione di riordinamento delle politiche di mercato o industriali ma “di fatto è l’origine di un nuovo ordine geopolitico” e il centro di una “nuova guerra fredda eco-ideologica che darà una nuova forma agli assetti globali provocando la resistenza esistenziale dell’anciene régime alimentato a combustibili fossili”.
Le alleanze prefigurate da Gilman in questo scenario non sono ideologiche ma pragmatiche: da un lato la Cina che, grazie a una capacità di visione a lungo termine, a enormi risorse statali e soprattutto a un sistema di governo autoritario libero dai fattori che nelle democrazie rallentano o impediscono i cambiamenti, guida la transizione energetica; e accanto alla Cina, in una possibile “intesa verde”, l’Europa, lontana anni luce su temi culturali e politici legati ai diritti umani ma con interessi simili dal punto di vista energetico.
La Cina e l’Unione europea sono i più grandi importatori di greggio al mondo e proprio per questo sono diventati i più veloci sviluppatori e fornitori di tecnologie verdi. Una partnership simile diventa più plausibile, continua Gilman, “se si riconosce che il dibattito geopolitico centrale del 21° secolo non è incentrato su quale modello di governo offra la via migliore alla prosperità ma su come affrontare al meglio le sfide planetarie”.
Ovviamente la transizione energetica passa per la dismissione dei combustibili fossili, avversata da un blocco reazionario di stati che ha cominciato a emergere. Gilman lo chiama “l’asse dei petrostati – in particolare Stati Uniti, Russia e Arabia Saudita –, i cui modelli economici, potere geopolitico e narrazioni di civiltà sono indissolubilmente legati ai combustibili fossili”. Il collante di una simile alleanza èuna visione comune della sovranità nazionale che subordina i vincoli ambientali all’identità nazionale. Il rifiuto degli impegni sul clima del governo statunitense rappresenta il consolidamento di una politica economica petro-nazionalista in cui i combustibili fossili sono sia la base materiale del potere sia un baluardo simbolico contro la governance verde ‘cosmopolita’ e ‘globalista’”.
Questa visione del mondo contrasta con quella proposta dai “nostalgici dell’ordine internazionale liberale, che vede l’asse Iran-Cina-Corea del Nord-Russia contrapposta all’alleanza delle ‘democrazie occidentali’. Ma l’alleanza tra le democrazie è già morta, massacrata dal trionfale ritorno al potere di Donald Trump”, dice Gilman, che conclude: “La battaglia in questa nuova guerra fredda non è solo sulle emissioni, i mercati energetici e la tecnologia, né solo su sovranità e identità. Piuttosto è sulle basi metaboliche della civiltà moderna in un mondo sempre più caldo, su cosa serva per modernizzarsi, sopravvivere e prosperare”. In quale direzione si andrà?

internazionale.it/notizie/junko-terao/2025/09/30/cina-guerra-fredda-ecologica

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