“Non esiste contrasto più profondo tra quello che divide una qualsiasi concezione greca della giustizia del quinto e quarto secolo da una qualsiasi concezione liberale moderna tipica sull’ambito della giustizia”. Così si esprime Alasdair MacIntyre nel suo Who’s Justice, Which Rationality (University of Notre Dame Press, 1988, 180). Siamo andati a fondo di questa differenza quando, nelle settimane scorse, abbiamo affrontato il passaggio dall’idea greca di giustizia “locale” a quella romana e cristiana di giustizia “cosmopolita” e “universale”.
“Per un liberale moderno – continua MacInryre – le norme della giustizia devono governare le relazioni fra esseri umani in quanto tali; il fatto che le parti in gioco […] provengano da società politiche differenti o siano divise da legami di altro tipo non rende affatto la giustizia irrilevante. Invece, per Aristotele, la giustizia propriamente detta viene esercitata tra cittadini liberi e uguali nella stessa polis e sebbene la giustizia possa essere in gioco in alcuni modi circoscritti in altre relazioni […] nei trattati commerciali o militari, nelle relazioni con le mogli, i figli e gli schiavi, in generale l’ambito della giustizia viene definito dai confini di questa polis particolare” (ibid.). La giustizia che ci si può aspettare regoli i rapporti tra i cittadini maschi e liberi della propria comunità non necessariamente, per i greci, si applica alle relazioni con le donne, gli schiavi e gli stranieri, nei commerci o in guerra. Una mutazione radicale interviene a riguardo inizialmente con gli stoici e Cicerone e la loro concezione della kosmopolis, la città cosmopolita composta dai cittadini che detengono diritti indipendentemente dalla loro localizzazione geografica. “La mia polis e la mia Patris è Roma […] ma in quanto essere umano è il cosmo” scrive significativamente a riguardo Marco Aurelio.
La mutazione successiva è ancora più radicale. Con San Paolo, l’“apostolo delle genti”, tutte le “genti”, e soprattutto con Agostino di Ippona l’idea di giustizia viene declinata in termini universali. Universalità che scaturisce dall’uguaglianza degli uomini tra di loro definita, a sua volta, sulla base alla comune figliolanza del Padre Celeste che ci rende tutti, non solo uguali, ma fratelli. Il luogo delle relazioni giuste si trasforma così dalla ristretta polis, alla kosmopolis globale, fino alla civitas Dei universale.
La Chiesa come città universale dell’uomo
Questa visione teologica e filosofica della giustizia universale elaborata da Agostino trova uno sviluppo politico nel pensiero e soprattutto nell’azione di Ildebrando di Soana che nel 1073 assurgerà al soglio pontificio con il nome di Gregorio VII. Gregorio fu un riformatore all’interno della Chiesa e uno strenuo difensore delle sue prerogative nei confronti delle ingerenze del potere imperiale. La sua azione teologica e, contemporaneamente, di implementazione politica si mosse lungo quattro direttrici principali.
La prima, come si diceva, interna alla Chiesa stessa. Il progetto di Gregorio era quello di plasmare e governare la Chiesa in modo da renderla concretamente la città universale di ogni uomo. Le sfide più radicali che all’epoca minacciavano questa visione venivano dalla diffusa della pratica della “simonia”, la compravendita di cariche ecclesiastiche, da un diffuso “nicolaismo”, la presenza frequente, cioè, di preti sposati o concubinari e da forti ingerenze del potere secolare che venivano esercitate nei confronti dei vescovi attraverso le lusinghe del denaro e dei privilegi. Tutte minacce, queste, alla stessa libertà d’azione della Chiesa che entra, per questo, in un acceso conflitto politico con l’Imperatore Enrico IV.
Libertà d’azione, libertas, che Gregorio vede come precondizione per una organizzazione e un governo ecclesiale fondati sulla iustitia.
Qui si innesta la seconda line d’azione finalizzata alla costruzione di un ordine politico e religioso capace congiuntamente di promuovere la concordia. La giustizia è la conformità dell’azione dei singoli, nella libertà, all’ordine stabilito dalla Chiesa e ai doveri che ne discendono. L’adempimento di tali doveri è favorito dall’umiltà. La giustizia, dunque, non è altro che l’umile adempimento dei propri doveri mentre l’ingiustizia è la superba disobbedienza ad essi. Questo tipico schema della psicologia agostiniana viene ora declinato in termini politici: solo la giustizia può portare alla concordia, mentre l’ingiustizia ed in particolare il dispotismo dei re produce discordia e conflitto. E’ sempre l’impronta agostiniana che fa immaginare quest’ordine fondato sulla giustizia come un ordine fra uguali cui ogni uomo può avere accesso in virtù della appartenenza alla comunità umana universale.
Iustitia nello ius
La terza linea di intervento di Ildebrando ha a che fare con lo sviluppo dei rapporti con gli stati alleati del papato con i quali cerca di stabilire linee d’azione e codici di condotta comuni per quella che veniva pensata come la societas christiana. Attraverso questa attività, come ricorda MacIntyre, il papa cerca di “mostrare la quintessenza della iustitia nello ius, in regole di condotta generalmente vincolanti” (p. 197). Il tentativo di “incarnare” in leggi e regole secolari l’ordine divino della Civitas Dei, della cittadinanza secondo lo Spirito. L’ultima direttrice lungo cui si muove la teologia politica di Gregorio VII è quella che riguarda la progettazione di istituzioni capaci di dare concretezza al governo della Chiesa ed in particolare nell’interazione con il potere temporale.
Questa complessa vicenda vedrà il suo protagonista morire in esilio, perdente nel conflitto contro l’Imperatore Enrico IV di Franconia il quale, sebbene umiliato a Canossa, troverà comunque modo di rifarsi contro Gregorio, destituendolo e costringendolo alla fuga da Roma. Ma nonostante i limiti della sua azione riformatrice che rappresenterà non di meno una novità importante nella storia della Chiesa, la figura di Gregorio rappresenta, nell’ambito del nostro viaggio intorno all’idea di giustizia, uno snodo cruciale perché, come ancora ci ricorda MacIntyre, egli afferma l’idea, con l’azione ancor più che con il pensiero, secondo cui “la teologia della giustizia agostiniana, come ogni concezione significativa della giustizia, non sarebbe stata interamente articolata finché non fossero state rese esplicite le sue conseguenze per la teoria della politica” (p. 198).
L’inutilità di una giustizia che non diventa pratica politica
Una concezione di giustizia che rimane astratta e non si trasforma in pratiche politiche è una concezione della giustizia incompleta o addirittura vuota. In questa inizia l’allontanamento progressivo tra Aristotele e Agostino che sfocerà nell’incomprensione reciproca e nella condanna. Dovranno passare secoli prima che nelle nuove istituzioni universitarie, intorno al 1200, inizino a diffondersi i testi aristotelici e venga accolta la sfida di una riconciliazione delle posizioni e di una nuova sintesi che darà un impulso formidabile alla teologia cristiana e alla fondazione di una base filosofica rigorosa di tutto il pensiero europeo. Alberto Magno, il Doctor Universalis e, soprattutto, Tommaso d’Aquino, il Doctor Angelicus, saranno le figure chiave di questa impresa che durerà secoli e lascerà un’impronta duratura sulla nostra cultura e sul nostro modo di pensare.
Fino a questo momento, però, a partire da Aristotele, in particolare, il contenuto dell’agire giusto assume un connotato comune, quello della proporzionalità: a ciascuno il suo secondo merito, bisogno, necessità, o qualunque altro parametro di valutazione rilevante di caso in caso.
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