La libertà negativa è la libertà dall’interferenza altrui nella mia vita, nelle mie scelte, l’assenza di coercizione. La libertà positiva è la libertà di autodeterminarsi, di darsi delle regole, di farsi legislatore di sé stesso, come direbbe Kant. Nel primo caso è impensabile che qualcuno mi dica cosa devo fare per essere felice, nel secondo caso posso decidere di essere felice sono insieme ad altri, seguendo regole che liberamente scelgo di autoimpormi. La distinzione tra libertà negativa e libertà positiva è stata avanzata con grande chiarezza e puntualità dal filosofo e storico delle idee Isaiah Berlin, nel suo saggio Due concetti di libertà che abbiamo a lungo discusso nel Mind the Economy della settimana scorsa. Una distinzione che da allora ha conquistato un posto prominente nella filosofia politica contemporanea. Se dovessimo indicare una preferenza di Berlin tra i due concetti, certamente egli sembra propendere per la versione negativa della libertà su quella positiva che egli ritiene, paradossalmente, visto che si parla comunque di libertà, di innumerevoli degenerazioni politiche liberticide.
Ad un livello ancora più profondo, però, possiamo trovare la ragione per cui Berlin ritiene necessaria la libertà, sia essa l’assenza di ogni forma di interferenza o la possibilità attiva di autonomia e autodeterminazione. Perché la necessità della libertà deriva, secondo Berlin, in ultimo, dal “pluralismo dei valori”, dalla possibilità, cioè, che valori ugualmente buoni e condivisibili siano, non di meno, in conflitto tra loro. Un conflitto irriducibile. Un conflitto per il quale nessuno dei valori, buoni allo stesso modo, può essere concretamente ritenuto migliore dell’altro. Scrive al proposito il filosofo in Due concetti di libertà “Una credenza in particolare, più di ogni altra, è responsabile della strage di individui sull’altare dei grandi ideali storici – giustizia, progresso, felicità delle generazioni future, la sacra missione o l’emancipazione di una nazione, di una razza o di una classe, o perfino la libertà stessa, che esige il sacrificio degli individui per la libertà della società. È la credenza che da qualche parte, nel passato o nel futuro, nella rivelazione divina o nella mente di un singolo pensatore, nelle solenni dichiarazioni della storia o della scienza, o nel cuore semplice di un uomo buono e integro, ci sia una soluzione finale. Quest’antica fede – conclude Berlin – riposa sulla convinzione che tutti i valori positivi in cui gli uomini hanno creduto devono alla fine essere compatibili e forse implicarsi persino l’un l’altro”. Se una cosa è buona e giusta non può essere in conflitto con un’altra cosa buona e giusta. E se scopriamo cosa, razionalmente, è buono e giusto, per esso potremmo voler sacrificare tutto il resto che credevano essere buono e giusto. Emergono in questo passaggio molti dei temi peculiari del pensiero del filosofo inglese: la distinzione tra scienze naturali e scienze umane e storiche, innanzitutto, l’antirazionalismo che dubita della possibilità di scoprire leggi storiche dallo statuto simile a quello delle leggi naturali, in secondo luogo, e poi l’avversione per il determinismo che deriva dal sospetto verso tale concezione della storia e del metodo di indagine del comportamento umano e, infine, la critica al monismo, quell’atteggiamento cioè che confida nella possibilità di un’armoniosa ricomposizione razionale dei valori e dei tratti culturali di ogni uomo. Se esistono leggi naturali dello sviluppo storico e queste rispondono ad un principio ultimo di razionalità, compito dello storico e del filosofo sarà quello di scoprire e rendere evidente tale schema nascosto. Si presenterà al suo sguardo, allora, lo scenario idealizzato da Condorcet nel suo Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, uno scenario nel quale “la specie umana, liberata da tutte le sue catene, sottratta tanto al dominio del caso quanto a quello dei nemici dei suoi progressi, che con passo fermo e sicuro avanza sulla strada della verità, della virtù e della felicità, presenta al filosofo uno spettacolo che lo consola degli errori, dei delitti, delle ingiustizie di cui la terra è ancora macchiata, e di cui egli è spesso vittima! (…) colà egli trova la vera ricompensa alla virtù, è il piacere di avere compiuto un bene durevole, che la fatalità non distruggerà più con un compenso funesto, riconducendo i pregiudizi e la schiavitù (…) là egli esiste veramente con i suoi simili, in un paradiso che la sua ragione ha saputo crearsi e che il suo amore per l’umanità abbellisce dei godimenti più puri”. La scoperta dell’ordine razionale della storia, attraverso le sue leggi e le sue dinamiche, ci porterà alla verità che nei sogni di Condorcet – uno degli uomini migliori che sia mai vissuto, come lo definisce Berlin – è legata da un’indissolubile catena che lega la verità, appunto, alla virtù e alla felicità.
Isaiah Berlin rifiuta drasticamente, anche se forse a malincuore, tale ideale monistico e ad esso contrappone il “pluralismo oggettivo”. Una posizione per la quale la compatibilità e la possibile ricomposizione all’unità dei valori buoni e giusti nient’altro rappresenta se non un’utopia irrealizzabile. Abbiamo quindi necessità di un pluralismo che accoglie l’esistenza e la intrinseca inconciliabilità di valori differenti e incompatibili, giusti magari allo stesso modo, ma, allo stesso modo incommensurabili tra loro. Non tutte le cose buone, infatti, sono riconducibili alla stessa radice e possono essere rese compatibili. Ne deriva il fatto che se la pensiamo e agiamo diversamente, per esempio, ciò non significa necessariamente che tu abbia torto ed io ragione o viceversa. Può benissimo essere che abbiamo tutt’e due torto, così come che entrambi abbiamo ragione. In termini più generali cosa possiamo dire dell’uguaglianza politica, dell’organizzazione efficiente o della giustizia sociale? Che sono sempre obiettivi giusti e quindi necessariamente raggiungibili contemporaneamente o che, invece, pur essendo tutti esiti ideali assolutamente auspicabili, non possono essere conciliati tra loro e resi compatibili? Dalla risposta a questo quesito alla generalizzazione secondo cui “non tutte le cose buone sono compatibili”, come scrive Berlin, il passo è breve. Così come diventa concepibile che i conflitti tra valori possano essere una possibilità concreta, come l’eventualità che “la realizzazione di alcuni nostri ideali possa, in linea di principio, rendere impossibile la realizzazione di altri”. I valori sono invenzioni umane – afferma Berlin, e non elementi naturali che abbiamo scoperto. Quindi niente ci garantisce la loro compatibilità reciproca, anche se, è possibile ammettere, che alcuni – la preminenza della libertà individuale, per esempio – hanno un valore universale e si riscontrano in tutte le culture conosciute. È per questa ragione che Berlin parla di “pluralismo” connotandolo come “oggettivo”. Il “pluralismo oggettivo”, dunque, accetta la possibilità che i diversi valori morali possano contemporaneamente essere validi e giusti, ma inconciliabili tra loro e quindi, potenzialmente, in conflitto. Mantenere una promessa è giusto, ma può ostacolare in alcune circostanze l’accertamento della verità. L’assenza di coercizione può confliggere con la giustizia sociale così come la lealtà può generare, in molto casi, omertà ed esclusione. Eppure, afferma Berlin, “Questi contrasti fra valori fanno parte della loro e della nostra essenza”. La soluzione a tali conflitti non può dunque risiedere in una regola generale, perché la garanzia di una soluzione razionale ed unitaria non esiste. La soluzione, al massimo, può essere contestuale e provvisoria e dipendere da caso a caso, da situazione a situazione.
Ecco perché è necessario poter scegliere, essere liberi di scegliere. Ecco perché la libertà è un valore. È proprio perché ci troviamo in questa condizione di incertezza ed indeterminazione che è necessario associare un valore enorme alla libertà di scelta tra valori, ideali e forme di vita, senza nessuna imposizione e senza nessun condizionamento esterno. Perché, infatti, se gli uomini e le donne “avessero la certezza che in qualche stato perfetto, realizzabile in terra, nessuno dei fini che essi perseguono sarà mai in conflitto con altri, scomparirebbero la necessità e il tormento della scelta e con essi l’importanza centrale della libertà di scegliere”. Se non ci fosse questa incertezza allora non ci sarebbe nessun problema a sacrificare qualunque livello di libertà pur di raggiungere, come sostiene Condorcet, attraverso verità e virtù, infine, la felicità. Ma le cose non stanno così e nella vita dei singoli e delle comunità non si potrà mai eliminare del tutto il conflitto e perfino la tragedia che deriva dalla necessità di scegliere tra esigenze che reputiamo assolute, “ineluttabile caratteristica della condizione umana”. Perché in fondo, lo sappiamo, lo sperimentiamo, lo percepiamo, che “gli obiettivi umani sono molteplici, non tutti commensurabili e in perpetua rivalità l’uno con l’atro”. È necessario allora “Rendersi conto della validità relativa delle proprie convinzioni [e allo stesso tempo] difenderle senza indietreggiare [perché questo] è ciò che distingue un uomo civile da un barbaro”..
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