Il trauma che resta, di Goffredo Buccini

Il 7 ottobre. Non ce ne vogliano gli strateghi della geopolitica ma, per capire, bisogna ripartire da un’ovvietà rimossa. Molti, pure tra i più democratici degli israeliani, anche tra i più critici verso Netanyahu e i suoi apocalittici sodali di governo, vi diranno che no, loro non sono affatto nella fase post-traumatica di quel giorno infame: ci sono ancora dentro fino al collo. Restano gli ostaggi, i vivi e i morti, in mano ad Hamas, a rammentarlo. E rimane quell’orologio a Teheran (lo ricordava Davide Frattini su queste colonne) in piazza della Palestina, a scandire l’approssimarsi dell’Armageddon col conto alla rovescia fino al 2040, data ultima nella profezia dell’ayatollah Khamenei per la cancellazione dell’«entità sionista» dalla faccia della terra. «Siamo in pieno trauma», mi spiegava una diplomatica pure esperta in risoluzione di conflitti e mediazione: mediare è talvolta un’arte sovrumana. 
È stato questo elemento «esistenziale», per noi incomprensibile, a tenere in piedi il primo ministro di Gerusalemme, che fa dei suoi rilanci bellici e biblici un cemento di coesione nazionale e di salvaguardia personale. L’Iran era ed è l’ultimo anello di una lunga catena di dolore, il dante causa dei proxy che hanno stretto d’assedio Israele, il regista di quella ferocia. E dunque la guerra con Teheran è il principio e la fine, l’alfa e l’omega di questo dramma, baratro o salvezza che sia. Il famigerato Amalek, l’Arcinemico delle Scritture, s’anniderebbe da quelle parti. 
Per noi il 7 ottobre è invece uno sgomento metabolizzato già da un pezzo, anzi, rovesciato in una cabala un po’ oscena: 1200 ebrei morti di qua, varie decine di migliaia di gazawi uccisi di là, il bilancino della riprovazione col lusso della giusta distanza. È un giorno, il 7 ottobre, «trasformato» in minaccia esistenziale da Bibi e dai suoi, secondo qualche autorevole analista. Dove quel «trasformato» implica il sospetto d’una operazione artificiale, come se quel giorno non fosse diventato naturalmente l’assillo di ogni ebreo: essere di nuovo catturato nella propria casa, nel proprio letto, davanti al proprio focolare, seviziato, deportato.
È questo il nocciolo relativista della dottrina Guterres, l’uomo che s’inchinava a Putin. «Questa strage non cade nel vuoto», c’era un prima, un po’ se la sono cercata: così il segretario generale dell’Onu banalizzò il massacro ancora caldo. Già, c’è sempre un prima. Come se non sapessimo che Hamas e l’Iran alle sue spalle programmavano da anni quel colpo e che l’avrebbero messo a segno pure se al governo ci fossero stati Rabin o Shimon Peres, anche se piazze intere di ebrei mansueti avessero salmodiato Shir LaShalom, la canzone per la pace. 
L’abbiamo incasellato, quel giorno, dentro un «ben altro», una strage più ampia. Così diciamo con leggerezza «genocidio», pattinando sulle parole: e certo gli orrori della Striscia, la fame dei bambini gazawi, le carneficine alle file per il pane, i crimini di guerra israeliani, le ambulanze bombardate, tutto autorizza a dirlo. Ma se è genocidio (e chi ne ha vissuto davvero uno come Liliana Segre tende a escluderlo) è questo l’unico caso in cui la popolazione oggetto del genocidio s’è più che quintuplicata fra il 1948, anno di nascita di Israele, e oggi. L’unico caso in cui i rappresentanti delle vittime stanno sedute nel Parlamento della nazione genocida. L’unico in cui quelle vittime hanno sostenitori che fanno manifestazioni davanti alla residenza del tiranno (come se durante la Shoah ci fossero stati cortei di protesta attorno alla casa di Hitler, ha osservato Adriano Sofri).
Le parole a effetto spesso ingannano. E comunque una polemica nominalista non coglie una grande questione tutta interna. È il rebus della demografia ciò che mette a rischio il senso autentico della democrazia israeliana. Nessuno crede più — e come crederci? — al mantra dei «due popoli, due Stati». E dopo? Molti hanno paventato uno Stato binazionale che scivolasse poi, con la forza dei numeri, verso una maggioranza musulmana: tra loro, persino Ehud Barak, l’ultimo premier arrivato a un passo da un accordo risolutivo ai tempi di Arafat. A questi timori ha risposto una legge molto identitaria e molto confessionale, varata con un solo voto di margine nel luglio 2018 dalla Knesset. Una legge assai contestata che cristallizza le diseguaglianze tra fedi ed etnie. E rende più vicino il bivio tra una terra ebraica non democratica e una terra democratica non solo ebraica, come notava un editoriale di Limes a un anno dal pogrom. Ma se l’illusione dei due Stati è spazzata via dalla realtà, allora bisogna curare ciò che resta. Risanando il cuore nero delle giovani generazioni: gli squadristi della Gioventù della Collina, «terroristi ebrei» anche per l’ex capo dello Shin Bet, Ronen Bar, che scorrazzano negli insediamenti della Cisgiordania; e i ventenni gazawi mai usciti dalla Striscia, cresciuti nella dittatura isolazionista di Yahia Sinwar, con l’arabo come unica lingua e l’odio per chi ora li bombarda come unico cibo. Se due Stati non sono possibili, va immaginata — dopo le guerre e il sangue — un’utopia ancora più azzardata: un Israele che, laicamente, salvi la sua democrazia di ceppo ebraico condividendola davvero con i palestinesi. Oggi è una follia e certo lo resterà a lungo. Ma la scelta è tra prendersi per mano o saltare insieme in un burrone. Dove il vero Amalek aspetta.

corriere.it/opinioni/25_giugno_16/il-trauma-che-resta-1158d08a-9d21-450b-bff4-eab16f212xlk.shtml

PRESENTANDOCI

Cercasi un fine è “insieme” un periodico e un sito web dal 2005; un’associazione di promozione sociale, fondata nel 2008 (con attività che risalgono a partire dal 2002), iscritta al RUNTS e dotata di personalità giuridica. E’ anche una rete di scuole di formazione politica e un gruppo di accoglienza e formazione linguistica per cittadini stranieri, gruppo I CARE. A Cercasi un fine vi partecipano credenti cristiani e donne e uomini di diverse culture e religioni, accomunati dall’impegno per una società più giusta, pacifica e bella.


 

 

          Con il 5x1000 e il ricavato della vendita dei libri sosteniamo:

    scuole di formazione sociale e politica, 

    sito web e periodico di cultura e politica, 

    insegnamento dell’italiano per cittadini stranieri gruppo I Care, 

    la biblioteca “Bice Leddomade”,

    incontri, dibattiti…

 

          basta la tua firma 

          e il numero dell'associazione 

          

         91085390721 


         nel primo riquadro sul volontariato

___________________________________________________________________________

Ultimi Articoli

Contribuendo

Per sostenere le nostre attività, cioè le scuole di formazione sociale e politica, questo sito web e il periodico cartaceo di cultura e politica, l’insegnamento dell’italiano per cittadini stranieri, la biblioteca “Bice Leddomade” e le altre attività di formazione culturale e sociopolitica, ti invitiamo a:

  • Donare un sostegno economico attraverso un Bonifico Bancario Cercasi un Fine APS

IBAN IT26C0846941440000000019932 BCC Credito Cooperatvo oppure CCP 000091139550 intestato ad Associazione Cercasi un fine

  • Donare il tuo 5×1000: basta la tua firma e il numero dell’associazione 91085390721 nel primo riquadro (in alto a sinistra) dedicato al Terzo Settore – RUNTS. 
  • Predisporre un lascito nel tuo testamento: hai la possibilità di aiutarci nel futuro – nel rispetto della legge, senza escludere possibili soggetti legittimari – attraverso il dono di qualcosa a Cercasi un fine (come una somma di denaro, beni mobili o immobili, una polizza di vita). Il testamento è un atto semplice, libero, sempre revocabile. Con il tuo lascito sosterrai le nostre attività. 

Grazie per quello che farai per noi.

SORRIDENDO