Il potere dopo Vladimir Putin, di Sacha Cepparulo

Prima dell’inizio della guerra in Ucraina il tema del ricambio generazionale al potere in Russia e nei paesi ex sovietici portava alle seguente conclusioni: a Mosca condurrà alla crisi delle pretese da superpotenza (o potenza regionale che sia) mentre negli altri paesi condurrà alla scoperta dell’identità nazionale e, in non pochi casi, alla riapparizione del nazionalismo.
Dopo il 24 febbraio la seconda dinamica ha sicuramente accelerato. Per quanto riguarda la prima le cose sono un pò più complesse. Il possibile scenario della crisi ha sicuramente non pochi elementi di verosimiglianza, anche se è ancora più probabile, come la maggior parte degli esperti sostiene, che non solo nel caso di un colpo di stato interno o di una lotta fra apparati, ma anche in condizioni ordinarie (ormai sempre più improbabili) il successore di Putin sarà, secondo la classificazione ornitologica oggi tanto in voga, un falco. Cioè sarà, di nuovo secondo le nostre categorie, più a “destra” e in generale più radicale dell’attuale presidente. Questa tesi ha il merito di mostrare che molto spesso il malcontento non solo dei falchi (cioè di una parte della componente militare e culturale dell’élite russa) ma anche del popolo è dovuto alla “moderazione” nella gestione dei vari teatri di crisi (l’Ucraina è naturalmente quello più attuale e impegnativo, ma non è il solo, si pensi infatti alle isole Curili). Dati i nuovi avvenimenti ai fini di una comprensione profonda della realtà russa diviene urgente coniugare da un lato l’analisi delle conseguenze politiche e geopolitiche di un ricambio generazionale post-storico al potere, dall’altro l’inevitabilità di un potere sempre più forte, radicale e quindi pervasivo.
Possiamo abbozzare più di uno scenario possibile. Prima ipotesi. Il potere diventerà più coercitivo anche nella vita famigliare, lavorativa e civile dei cittadini: cioè meno di 200 falchi domineranno con la forza 146 milioni di russi post-storici, post-sovietici e, secondo la definizione di Trenin, post-post-imperiali. Questa ipotesi sarebbe quindi un’esacerbazione della descrizione occidentale (errata e ideologica) del conflitto ucraino: infatti se questa è la guerra di Putin e dei falchi, allora si tratterebbe di descrivere con la categoria della continuità il futuro della classe politica russa e con quella della discontinuità il futuro della società civile. Un’obiezione a questa ipotesi potrebbe essere la seguente: la classe dirigente russa non sarà composta solo dai figli o dai favoriti degli esponenti della classe dirigente precedente. Se quindi una componente minoritaria deve necessariamente provenire dalla società civile, nel caso di un ricambio generazionale si dovrà supporre una lieve incrinatura post-storica anche a livello di strutture statali e potere politico.
Seconda ipotesi. Nel breve-medio futuro non solo la classe politica, ma anche la società civile diventerà più radicale. Oggi in Russia il potere è detenuto da coloro che hanno dai 55 ai 70 anni: cioè da sovietici russi che sono nati e cresciuti in una realtà rigidamente ordinata e, perciò, al lassismo anarchico el’ciniano con molta semplicità hanno risposto con la propria esperienza passata, cioè con le loro incrollabili e sovietiche certezze (stato forte, centralismo, burocratizzazione etc.) creando sicuramente una realtà nuova ma che tuttora dipende ancora molto da un passato che non passa. A questa generazione seguirà quella di russi molto più inquieti e perciò imprevedibili: cioè la generazione dei devjanostye (dei famigerati anni ’90). Il ricordo degli anni ’90 è ancora vivissimo non solo in questa generazione, ma anche in quella dei loro figli maggiori: stipendi che non arrivavano, deficit di prodotti essenziali, criminalità, anarchia, assenza di servizi basilari, guerre; per il momento nulla di paragonabile alla crisi economica post-pandemia e post-sanzioni e a quella politica e geopolitica dovuta principalmente al conflitto ucraino. Al di là delle narrazioni romanzesche ancora oggi molto in voga negli anni ’90 la negazione immediata e radicale della realtà socialista voluta dall’alto, cioè dalla presidenza El’cin, ha creato un vuoto di coscienza molto profondo. Alla fine dell’Urss l’ideologia socialista e la realtà sovietica sono state immediatamente considerate il male assoluto. La portata psicologica ed esistenziale della liberalizzazione ideologica e culturale coatta sulla coscienza della popolazione russa è paragonabile a quella che ci colpirebbe se domani per decreto 2+2 smettesse davvero di fare 4.
Questo vuoto si è provato a riempirlo con il trash tipico degli anni Novanta. Dopo la fine del dominio dell’ideologia sovietica sono seguiti tantissimi esperimenti televisivi, musicali, artistici, letterari: inizialmente la libertà ritrovata si è declinata in un kitsch sfrenato. Ciò dimostra indirettamente quanto profondo fosse il vuoto esistenziale degli anni Novanta. Nel ’89 Prilepin, oggi scrittore, politico e militare russo, aveva 14 anni. Quella che per comodità potrebbe essere definita “la generazione Prilepin” ha vissuto traumaticamente questo vuoto (anticipato dalla crisi del modello socialista e dal suicidio dell’Unione Sovietica) e per questo il ritorno all’ordine si è configurato come una scoperta o, forse, come una “riscoperta” di cui però si aveva un ricordo troppo vago e impalpabile. Senza mettere in discussione le conclusioni della psicologia contemporanea secondo cui il carattere di ogni persona si forma completamente prima dei tre anni d’età, è difficile negare che l’iniziare la vita adolescenziale nel caos post-sovietico in cui gli unici punti fissi erano guerre e crisi finanziarie abbia sulle persone conseguenze psicologiche, esistenziali e culturali profondamente diverse da quelle prodotte in un sistema ideologizzato e monolitico. Forse nell’ultimo caso la delusione iniziale di fronte al suicidio sovietico può essere stata sentita più profondamente, ma il ritorno all’ordine ha assunto il significato di un ritorno alla normalità. Per la generazione Prilepin invece si tratta di una novità e per questo motivo l’attaccamento nei confronti dell’ordine e della stabilità è nettamente superiore: la fede nel neofita è sempre più drastica. Questa generazione a differenza di quella precedente ha praticamente da sempre inteso il senso di grandezza della Russia esclusivamente in senso nazionale: se prima, perlomeno a livello di narrazione ideologica, si aveva un’ideologia che si definiva anazionale o sovranazionale e che proprio per questo si riteneva in diritto di unire popoli diversi, ora con questa generazione si ha una narrazione prettamente nazionale della specificità della civiltà russa e della sua storia sulla base di cui vengono fondate la giustizia delle sue pretese e la sua multietnicità.
La generazione Prilepin è in generale meno disposta ad apertura nei confronti dell’Occidente perché traumatizzata dal bicchiere di latte di Gorbačёv e dalle risate clintoniane per le sortite di un El’cin proverbialmente avvinazzato (leader che in Russia e in generale nei paesi dello spazio post-sovietico al di là di quello che si pensa in Occidente non godono di grande stima da parte delle popolazioni). Dato che la generazione precedente nutriva una prevenzione puramente ideologica dopo il tramonto del socialismo sovietico in un primo momento essa si è completamente gettata nelle braccia dell’Occidente. La generazione Prilepin al contrario è fortemente pragmatica e perciò più irremovibile, infatti come diceva Lenin “i fatti hanno la testa dura”. Se l’ideologia non conosce mezze misure e secondo una logica aut-aut passa da un estremo all’altro (spesso in maniera molto instabile), la generazione Prilepin invece esclude in partenza ogni aut-aut e, considerando la crisi ucraina un’ulteriore conferma delle proprie convinzioni, ritiene sostanzialmente inutile e infruttuosa ogni forma di dialogo. Dopo aver esperito sulla propria pelle che apertura all’Occidente significa prostrazione essa ritiene impossibile instaurare un rapporto alla pari e ottenere il riconoscimento delle pretese russe da parte delle principali potenze occidentali. Dunque apertura significa umiliazione. Inoltre questa generazione ha potuto constatare come i rappresentanti di queste aperture politiche nei confronti dell’Occidente abbiano fatto una brutta fine politica (Gorbačёv) e non solo (durante la sua presidenza El’cin è sopravvissuto a 5 infarti).
È interessante notare che un’altra regione della Russia oggi molto importante è già guidata da questa generazione, cioè la Cecenia. Se a ciò si aggiunge che molto probabilmente il putinismo – inteso come sistema di relazioni politiche, geopolitiche, economiche e personali che si estende dagli uffici del Cremlino fino all’ispettorato di polizia in provincia di Vladivostok – non finirà con Putin, allora si deve supporre che un cambio di sistema-paradigma (secondo la logica binaria descritta da Jurij Lotman) potrebbe avvenire solo dopo la dipartita politica della generazione Prilepin. A questo punto si pone un’altra questione: cosa potrebbe succedere con la generazione post-Prilepin?
È indubbio che in materia di aspettative di politica estera le generazioni attuali siano profondamente differenti sia da quelle sovietiche sia da quelle degli anni Novanta. In ogni caso è però bene usare molta prudenza quando si fa affidamento a una “distensione” delle nuove generazioni russe in senso pro-occidentale. Alla fine della guerra fredda si è innescata una dinamica più o meno dello stesso tipo che in sinergia con altre concause ha condotto alla guerra attuale. Se è vero che la Russia è storicamente un paese essenziale per gli equilibri politici e geopolitici europei, allora si deve tenere presente che solitamente i momenti di antagonismo con l’Europa, dopo una disperata e sempre inconcludente ricerca a Oriente di ciò che la Russia può trovare solo a Occidente che viene ideologicamente e culturalmente giustificata con l’euroasianesimo, terminano con il complesso di inferiorità che porta i russi ad auto-umiliarsi e a suicidarsi (si pensi alla già citata fine suicida dell’Unione Sovietica) per poi risentirsene e approdare a un complesso di superiorità. È bene anche precisare che gli Occidenti negli ultimi decenni hanno sfruttano questo momento ciclico esclusivamente per perseguire i propri obiettivi senza impegnarsi seriamente nella costruzione di un dialogo alla pari. Dopo la fine della Guerra Fredda gli Occidenti hanno considerato la Russia, in quanto legittimo erede dell’Urss, il paese perdente per eccellenza dimenticando quindi la storica politica di suddivisione e rispetto reciproco delle zone di influenza. La crisi dei principi giuridici, politici e geopolitici createsi in Europa con la pace di Vestfalia e il fatto che dopo la fine della Guerra Fredda non ci sia stata nessuna nuova Yalta sono infatti alcune delle cause principali di questo conflitto. Dato questo misconoscimento della legittimità delle pretese russe la speranza di fare affidamento su una generazione ben disposta nei confronti dell’Occidente ha in germe il rischio di un ribaltamento della situazione e quindi l’approdo a un senso di rivalsa che sarà ancora più radicale se la Russia in un modo o nell’altro uscirà umiliata o sconfitta dal conflitto ucraino (tutto ciò ammesso che non imploda prima).
Al di là della considerazione banale secondo cui i giovani moscoviti che non sono nemmeno a conoscenza dell’esistenza del quarto o quinto anello della capitale, o dei giovani pietroburghesi che non si sono mai spinti oltre Nevskij Prospekt, siano profondamente differenti dai giovani delle altre città russe (tra l’altro molto spesso non si tiene conto delle nuove generazioni di altre città assai dinamiche come Ufa e Kazan’) bisogna aggiungere che, accettando la critica secondo cui saranno più probabilmente i primi a occupare i posti del potere, per le ragioni appena discusse non è detto che siano ben disposti ad abbandonare le pretese “da potenza”. Una generazione così ben disposta inizialmente non farà altro che soddisfare le pretese altrui (vedremo se solo occidentali o anche cinesi, turche, arabe, iraniane) con il rischio di innescare quella logica binaria viziosa di complesso di inferiorità e superiorità che potrebbe essere ulteriormente esacerbata da probabili conflitti etnici tra paesi come la Georgia e il Kazakistan e la Russia.
Il nazionalismo georgiano è un fenomeno già ben noto che ha avuto modo di manifestarsi in più di una guerra (di cui naturalmente non era l’unica causa). Quasi quotidianamente si parla di polveriera caucasica soprattutto in riferimento alla Cecenia che in realtà, in assenza di un cambio di paradigma, cioè del putinismo come sistema, anche a fronte del sacrificio sostenuto e del ruolo svolto nella guerra ucraina è improbabile che nel breve e medio termine si impegni in guerre secessioniste di stampo religioso. Al contrario quella che potrebbe essere definita la futura “polveriera kazaka” per il momento non è presa minimamente in considerazione. Dopo il crollo dell’Unione sovietica il nazionalismo kazako ha dato luogo ad episodi molto spiacevoli che però non sono mai sfociati in vere e proprie pulizie etniche o conflitti armati. Negli ultimi dieci anni sono molti i russi che hanno abbandonato il paese e l’improvvisa e massiccia fuga di russi, anche se utilizzata politicamente come ulteriore occasione per confermare la nuova direttrice politica e geopolitica del Kazakistan al di fuori della sfera di influenza russa, ha destato un forte malcontento della popolazione (così come in Georgia). Inoltre nel caso di un conflitto con la Russia il Kazakistan sarà sostenuto (più o meno apertamente) dalla Cina che in questo modo potrà intraprendere la tanto agognata derussificazione della Siberia.
Più che fare affidamento a sperati mutamenti delle nuove generazioni di quei paesi che si propongono come alternativi e non sono intenzionati ad occidentalizzarsi in senso politico, geopolitico e anche culturale, forse sarebbe meglio optare per un sano realismo. 

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