L’11 dicembre del 1997 viene firmato il Protocollo di Kyoto nel corso della Cop3, ovvero il terzo vertice annuale che sotto l’egida delle Nazioni Unite riunisce i governi per agire contro i cambiamenti climatici. Si chiede ai Paesi, e a quelli più industrializzati in particolare, di ridurre le concentrazioni di gas a effetto serra in atmosfera a «un livello che possa prevenire pericolose interferenze antropiche nel sistema climatico».
A Kyoto il primo scontro tra due visioni contrastanti e incompatibili sul clima
Se il Protocollo in sé e i principi di fondo possono essere considerati una pietra miliare nell’azione della comunità internazionale, il vertice ha però instradato l’impegno sul clima in una direzione ben precisa. Dietro le quinte a Kyoto tenne banco uno scontro tra due visioni contrastanti e incompatibili. La prima si fondava sulla regolamentazione, come ad esempio l’introduzione di una tassa sul biossido di carbonio. Semplificando, più produzione, distribuzione e utilizzo di un prodotto o servizio dipendono dai combustibili fossili, più aumenta il costo, scoraggiandone l’utilizzo. Una tassa avrebbe inoltre permesso di raccogliere risorse fondamentali per la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici.
La strada scelta è invece stata un’altra: fissare obiettivi per le emissioni e poi affidare a meccanismi di mercato la possibilità di comprare o vendere quote di CO2 equivalente. In pratica a ogni nazione e successivamente a ogni impresa viene assegnato un certo quantitativo di emissioni. Chi emette meno di quanto assegnato può vendere la differenza. Chi al contrario non raggiunge gli obiettivi e inquina più del previsto può acquistare sul mercato le quote eccedenti, compensando così le maggiori emissioni. È il principio alla base dell’Emission Trading System lanciato dall’Unione europea alcuni anni dopo.
I problemi dell’Emission Trading System, il meccanismo di scambio dei “diritti ad inquinare”
Il sistema ha da subito presentato diversi problemi, legati tra le altre cose a quante emissioni assegnare, a come fissarne il prezzo, a doppi conteggi, alle modalità di rendicontazione e altri ancora. Inizialmente i prezzi troppo bassi non fungevano in alcun modo da deterrente, tant’è che diversi interventi a livello europeo e non solo sono stati pensati per aumentarli. Un’ennesima conferma che il “libero” mercato non è in grado di auto-regolarsi ma necessita di pesanti correttivi legislativi.
Ciò malgrado, due recenti inchieste internazionali denunciano come la stragrande maggioranza dei progetti di compensazione sarebbero “spazzatura” se non una vera e propria “truffa”. Nel corso degli anni si sono moltiplicate le iniziative per cercare di porre rimedio, creando nuovi mercati e piattaforme di scambio di emissioni, rafforzando quelli esistenti, rivedendo gli accordi internazionali. Interventi che non sembrano avere risolto i problemi. Un quarto di secolo dopo la firma di Kyoto è necessaria una riflessione. La questione di fondo è come migliorare un processo che non funziona per motivi contingenti o al contrario è l’idea stessa a essere strutturalmente sbagliata?
È sbagliata l’applicazione del sistema o è sbagliato il sistema?
Quasi tutti i maggiori gruppi bancari e finanziari hanno annunciato piani e aderiscono a qualche rete globale per le “zero emissioni nette”. È oggi praticamente impossibile trovare una banca che non sbandieri la propria sostenibilità ambientale. Le stesse banche negli ultimi sette anni hanno finanziato i fossili per 5.500 miliardi di dollari.
Com’è possibile? Il problema è nella parola “nette”, ovvero nella possibilità di realizzare interventi per compensare le emissioni, dal piantare alberi, a finanziare progetti per le rinnovabili, all’utilizzo di tecnologie che catturerebbero il biossido di carbonio (CCS). Un ruolo di primo piano, in Europa ma non solo, è proprio la compravendita di emissioni. Grazie a questo mercato, non devo smettere di finanziare le fossili. Se i miei finanziamenti inquinano troppo, mi basterà comprare sul mercato le quote eccedenti e continuare con il business as usual.
I rischi dietro i ragionamenti sulle emissioni “nette” di gas ad effetto serra
Come riportato in una recente ricerca di Finance Watch, «l’economia mondiale è in una situazione simile a quella di un uomo dipendente da un veleno, e che, invece di liberarsene, continua ad assumerlo prendendolo assieme a un antidoto, nella speranza che gli effetti si cancellino. L’antidoto è ciò che si nasconde dietro la parola “nette” quando si parla di zero emissioni nette. L’economia mondiale è talmente dipendente dalla CO2 che vuole continuare a emettere tutto il possibile, però compensando le emissioni. Il mondo si sta prendendo in giro pretendendo che l’antidoto sia efficace?».
I risultati sono sotto gli occhi di chiunque voglia vederli. Le emissioni continuano a crescere, a fronte di un disastro climatico sempre più imminente. Nessuna inversione di rotta, anzi. Nascono progetti per l’estrazione e lo sfruttamento delle fossili anche nelle aree più remote e delicate del Pianeta. Decidere o meno se costruire o finanziare una centrale a carbone non dipende dall’evidenza scientifica sul clima. Se la centrale rende abbastanza per coprire anche i costi delle compensazioni, non ci sono problemi. Il criterio è il profitto, il clima viene ridotto a una variabile secondaria. Con il mercato delle emissioni non vale più il principio secondo il quale chi inquina paga. Oggi chi paga può inquinare.
Perché il vero problema è un sistema economico in cui tutto è mercato
Ma c’è di peggio. Con un colpo di bacchetta magica il problema è diventato la soluzione. Il problema è un sistema economico e finanziario in cui tutto è mercato e che ha come unico obiettivo il massimo profitto nel minore tempo possibile. La soluzione incredibilmente diventa la creazione dal nulla di un ennesimo mercato, delegando agli stessi meccanismi finanziari la compravendita di emissioni su scala globale. Truffe e progetti spazzatura non sono il problema, ma unicamente un sintomo, l’effetto secondario dell’avere subordinato la lotta ai cambiamenti climatici al denaro. Semplicemente non è possibile che il mercato possa tutelare un bene pubblico globale quale il clima. Una tra le molte incompatibilità riguarda il tempo: da un lato la ricerca di profitti a brevissimo termine della finanza, dall’altro gli orizzonti degli investimenti necessari per la transizione ecologica.
Come già discusso dietro le quinte a Kyoto, delle strade alternative sarebbero possibili, se solo ci fosse la volontà politica di intraprenderle. Strade fondate su norme vincolanti e non impegni volontari dipendenti dalla convenienza economica e dall’onnipresente “libero mercato”. Come accennato parliamo di forme di tassazione, ma anche di un Trattato internazionale per la progressiva uscita dai fossili; del divieto di sfruttamento di nuovi giacimenti; dell’aumento dei requisiti patrimoniali per le banche che finanziano le fossili; e altri ancora.
Intendiamoci. Le compensazioni possono avere un ruolo nel contrasto ai cambiamenti climatici. Ma una cosa è pensarle come uno dei molti strumenti a disposizione, e in particolare per azzerare le emissioni che non possono davvero essere eliminate in altro modo. Uno strumento complementare e quasi residuale rispetto a un serio impegno per le riduzioni, e soprattutto rispetto a un approccio normativo e regolamentare. Discorso totalmente diverso è affidare al mercato il ruolo predominante se non esclusivo nella lotta ai cambiamenti climatici, non a fianco ma in sostituzione di un sistema di regole stringenti.
Alla Cop26, 24 anni dopo Kyoto, ancora si discuteva se “uscire da” o “diminuire” l’uso di carbone
Questa è però l’evidenza a oggi. Mentre il problema di come fare funzionare il mercato delle emissioni è da oltre vent’anni al centro dell’agenda delle Cop, non è mai stato affrontato il tema dell’uscita dalle fossili. O meglio, la prima volta in cui tale questione è stata dibattuta è stata durante la Cop26 di Glasgow, nel 2021. Non l’uscita da tutte le fonti fossili, ma unicamente da quella in assoluto più inquinante, il carbone. Se nei giorni della Cop si parlava almeno di una progressiva uscita (phase out), l’ultimo giorno dei negoziati una manina l’ha sostituita nel testo finale con un phase down, ovvero la sola diminuzione della dipendenza dal carbone. Un singolo termine che, in assenza di qualsiasi obiettivo o scadenza, ha totalmente svuotato il testo negoziale.
Questo alla Cop26, ventiquattro anni dopo Kyoto. La comunità scientifica segnala che già nel 2030 – tra sette anni – potremmo superare gli 1,5 gradi centigradi di riscaldamento globale, obiettivo fissato alla Cop21 di Parigi. A fronte dell’emergenza conclamata di agire subito per frenare il disastro in corso, abbiamo impiegato un quarto di secolo per accennare al problema dell’uscita non dalle fossili ma dal solo carbone, e per assistere poi al triste balletto tra uscita e “diminuzione”. L’approccio puramente di mercato è diventato un alibi e ha di fatto rallentato se non azzerato il dibattito su possibili alternative.
L’impostazione neoliberista rischia di condannare il clima della Terra
A Kyoto è stata presa una decisione su quali fossero le priorità, e prima ancora su quale dovesse essere il modello economico e di sviluppo. Ha vinto l’impostazione neoliberista: niente regole ma un approccio volontario, dove sono gli inquinatori a decidere se e quanto gli conviene inquinare. Ha vinto il dogma di un mercato onnipresente dove tutto può essere comprato e venduto, persino il sistema climatico. Nel dicembre del 1997 abbiamo consapevolmente deciso che mercato e profitti sono punti fermi intoccabili, la stessa vita sulla Terra una variabile su cui giocare. O la Borsa o la Vita. La scelta è stata presa e mai più messa in discussione.
Tutti ricordano alcune date della storia recente. La fine della seconda guerra mondiale, la caduta del muro di Berlino, l’attacco alle torri gemelle. C’è però un’altra data che rappresenta un momento storico decisivo, ma molto meno nota. Senza un deciso cambio di rotta, se tra uno o due secoli ci saremo ancora potremo guardare indietro alla data esatta in cui l’umanità ha deciso che la tutela del clima dovesse dipendere da un calcolo economico e misurata in termini di profitti. La data in cui ci siamo condannati con le nostre stesse mani.
Cercasi un fine è “insieme” un periodico e un sito web dal 2005; un’associazione di promozione sociale, fondata nel 2008 (con attività che risalgono a partire dal 2002), iscritta al RUNTS e dotata di personalità giuridica. E’ anche una rete di scuole di formazione politica e un gruppo di accoglienza e formazione linguistica per cittadini stranieri, gruppo I CARE. A Cercasi un fine vi partecipano credenti cristiani e donne e uomini di diverse culture e religioni, accomunati dall’impegno per una società più giusta, pacifica e bella.