Il fallimento del «regime change», di Lorenzo Cremonesi

«Regime change», cambio di regime: Benjamin Netanyahu lo ha nominato espressamente quale obbiettivo di massima per l’attacco contro l’Iran. Non solo dunque eliminare la minaccia atomica che grava su Israele, ma anche lavorare per la caduta della teocrazia degli Ayatollah, così come si è strutturata da dopo la rivoluzione khomeinista del 1979. Il premier israeliano si è persino rivolto pubblicamente in lingua farsi alla popolazione iraniana per aizzarla alla rivolta contro la «dittatura». In sostanza, lo Stato ebraico si propone come motore primo della rivoluzione democratica iraniana.
 Ma, se andiamo oltre alla propaganda della guerra, non è difficile osservare che nella realtà l’idea di intervenire in un Paese o in una società stranieri per mutare a proprio favore la loro forma di governo ha sortito risultati per lo meno dubbi negli ultimi decenni, se non totalmente fallimentari. Non a caso negli Stati Uniti, dopo i flop sanguinosi delle campagne in Iraq e Afghanistan seguiti agli attentati di Al Qaeda l’11 settembre 2001, il principio di «esportare la democrazia», in auge tra i «neocon» di Bush junior dopo la fine della Guerra fredda, è oggi largamente screditato tra politologi e osservatori.
Anche Israele ha pagato a caro prezzo tentativi simili. Le amministrazioni controllate dai militari israeliani nelle municipalità palestinesi delle regioni occupate di Cisgiordania e Gaza dopo la guerra del 1967 non impedirono negli anni Settanta la crescita dell’Olp. Ma il fallimento più grave fu quello del disegno di Ariel Sharon nel 1982, quando era ministro della Difesa nel governo di Menachem Begin, di accordarsi con i falangisti cristiani di Bashir Gemayel, che avrebbero dovuto creare un governo amico di Israele nel Paese dei Cedri. Sharon invase il Libano meridionale con l’operazione «Pace in Galilea» e all’insaputa di Begin si spinse fino a Beirut, costringendo Arafat a fuggire in Tunisia con circa 10.000 fedelissimi. Per un attimo parve che tutto andasse benissimo. A Gerusalemme regnava l’euforia. Ma fu solo una breve parentesi. Perché poi l’assassinio di Gemayel fece crollare l’intero progetto. La guerra civile libanese vide una gravissima recrudescenza: i siriani con l’Iran rafforzarono la loro presenza costringendo le truppe israeliane a ritirarsi a sud del fiume Litani. In verità, tutta quell’operazione portò alla nascita di Hezbollah e vide Israele in una posizione più difficile di prima, tanto che è possibile sostenere che le guerre degli ultimi anni sono anche il risultato del fallito «regime change» del 1982.
In Iraq la caduta del regime di Saddam Hussein nel 2003 vide negli anni seguenti la recrudescenza del terrorismo jihadista sunnita e infine la nascita di Isis. Soltanto oggi, 22 anni dopo l’invasione Usa e circa 800.000 morti tra terrorismo e guerra civile, il Paese vive una relativa normalizzazione, ma ben lontana dal disegno originale di Bush. Il tracollo inoltre dei disegni di ingegneria sociale occidentali in Afghanistan è ancora nei nostri occhi, con le tragiche immagini del ritiro alleato da Kabul nell’estate di quattro anni fa.
Quali elementi ci fanno dunque pensare che Netanyahu possa davvero diventare l’ispiratore della prossima rivolta democratica iraniana? E se questa alla fine dovesse avvenire, a fronte di un regime debole e isolato, cosa impedirebbe che le conseguenze siano per Israele peggiori di ciò che esiste oggi? Non va dimenticato che persino in Libano le forze cristiane e sunnite non hanno dato la spallata finale contro Hezbollah, screditato anche in vasti settori della popolazione locale sciita, dopo che Israele ne aveva quasi annullato le capacità militari lo scorso ottobre. E lo stesso sta avvenendo tra le masse di disperati a Gaza, dove Israele arma e sostiene adesso alcuni clan locali nella speranza che si oppongano alla guerriglia di Hamas. Nascono così nuove schegge impazzite che aggiungono caos al caos. Allo stesso modo negli anni Settanta ancora Israele aveva sostenuto le forze islamiche contro l’Olp laico e socialista. Il risultato non fu tra i più felici, visto che Hamas oggi è anche conseguenza di quei progetti politici sostenuti con la forza delle armi e della supremazia militare.

corriere.it/opinioni/25_giugno_15/il-fallimento-del-regime-change-615bfbba-ddc5-42ea-913a-5954e0800xlk.shtml

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