I valori e le parole per ritrovarli, di Goffredo Buccini

Il vero obiettivo d’un terrorista non è uccidere la vittima, è cambiare chi le sopravvive. Così, il successo di Osama bin Laden non fu il crollo delle Torri. Fu Guantanamo: l’aver ferito così a fondo l’America da indurla a tradire i propri valori inventandosi un lager extraterritoriale per jihadisti. Nella medesima ottica, il massimo risultato di Hamas non è stato il pogrom del 7 ottobre. È stato risucchiare Israele in un cortocircuito esistenziale. Provocandone una reazione che, dapprincipio emotivamente inevitabile ma poi sospinta oltre ogni criterio di umanità e di onore, sta trasformando la nazione con la Stella di David in uno «Stato paria», secondo le abrasive parole del «sionista di sinistra» Yair Golan, vicecapo di stato maggiore in congedo, leader dei democratici e coscienza critica di un popolo sull’orlo di una crisi d’identità.
 Passati i seicento giorni di caccia agli assassini di Hamas, l’assenza di una plausibile politica che non sia il mero svuotamento della Striscia esaspera i contorni del dramma. La tregua, se scatterà, sarà friabile poiché nessuno crede in essa. Anche se il numero delle vittime fosse un terzo di quello comunicato dal ministero della Sanità di Gaza (in mano ai terroristi e dunque tutt’altro che affidabile) sarebbe già spaventoso. 
Anche se la sospensione degli aiuti alla popolazione, ora ripristinati in minima parte, fosse funzionale a minare il potere di Hamas (e certo lo è, poiché gli islamisti li hanno sempre sfruttati come leva di consenso) le immagini dei bambini gazawi denutriti sono intollerabili. Anche se Hamas ha usato e usa i palestinesi come arma ibrida (e lo fa, sparando da scuole e ospedali) l’eliminazione di un capo terrorista non può giustificare il sistematico sacrificio dei civili in mezzo ai quali quello si è nascosto. L’etica pur fragile d’una guerra asimmetrica impone a un Paese democratico di farsi carico persino dell’altrui ferinità: a meno di accettare che settantasette anni di strenua lotta per non essere cancellato dalle mappe ne abbiano davvero stravolto i codici morali e genetici.
Certo, è facile impartire lezioni a (prudente) distanza. Il giorno dopo il pogrom, Thomas Friedman ammonì Israele dal cacciarsi nella trappola costruita dagli ayatollah iraniani, mandanti di Hamas e degli altri proxy attivi nella regione: senza, in verità, suggerire strade alternative alla risposta armata, perché allora non ve n’erano. Joe Biden consigliò a Gerusalemme di non ripetere gli errori degli americani dopo l’11 settembre: senza, in verità, cogliere una differenza essenziale, poiché mai la sopravvivenza degli Usa è stata messa a repentaglio dal terrorismo come invece lo è, quotidianamente, l’esistenza di Israele. 
Per paradosso, la pura realtà ci è sempre stata rammentata dai capi di Hamas, in dorato esilio o nei tunnel che fossero: costoro chiedevano a gran voce il sangue delle donne e dei bambini palestinesi, del loro popolo, per irrorare la rivoluzione islamica. La debolezza di Israele è stata non sapersi sottrarre mai a questo sciagurato invito, facendosene anzi strumento. Netanyahu ha avuto ristoro dall’umiliazione del 7 ottobre: contro Hezbollah, contro Damasco, contro Teheran, contro la dirigenza di Hamas. Avrebbe potuto dichiarare vittoria dopo l’eliminazione di Yaya Sinwar, l’architetto del pogrom, dedicandosi alla politica del giorno dopo. Non lo ha fatto perché la guerra lo tiene in vita: così come lo stallo sugli ostaggi, che Hamas potrebbe liberare tutti domattina mettendone in mora l’opzione bellica. Ma Hamas è speculare a Netanyahu, può perdere la guerra fino all’ultimo gazawi ma non può vincere la pace. E sa che gli israeliani, senza la liberazione dei restanti ostaggi vivi e la restituzione dei morti, non potranno mai superare il trauma del 7 ottobre, rimanendo incatenati a un premier che appare ormai il pericoloso moltiplicatore di ogni radicalismo religioso.
Circolano sulla società israeliana sondaggi contraddittori. Uno di questi, assai ripreso dai media arabi, afferma che otto israeliani su dieci vogliono espellere tutti i gazawi dalla Striscia e quasi uno su due sostiene che l’Idf deve comportarsi come gli «israeliti biblici» uccidendo tutti gli abitanti di una città conquistata per eliminare Amalek, l’arcinemico che s’invera nella storia. Il sondaggio, realizzato da un professore dell’università della Pennsylvania che ha sempre sostenuto il boicottaggio di Israele contro «l’occupazione della Palestina», contrasta sul piano logico con altri sondaggi che danno in calo il consenso sul controllo israeliano a Gaza e in crescita l’appoggio alla fine della guerra in cambio del rilascio di tutti gli ostaggi. Se letto con lenti deformate, può inoltre contribuire alla mostrificazione dell’intera popolazione (e per assonanza di tutti gli ebrei, ovunque essi siano) trasferendovi la riprovazione riservata al premier e agli estremisti del suo governo: un’operazione ingannevole oltre che ingiusta, come lo è isolare Israele per colpire Netanyahu. Al di là delle sempre più frequenti prese di posizione pubbliche di migliaia di riservisti, ex primi ministri ed ex ambasciatori di Gerusalemme, basta ascoltare qualche voce fuoricampo da laggiù per cogliere il travaglio di chi non crede più alla formula ormai svuotata di «due popoli, due Stati» ma è consapevole dell’esistenza di due popoli senza leadership che, in attesa di superare gli orrori del 7 ottobre e di Gaza e gli errori della Cisgiordania, devono ricominciare a parlarsi. È il primo passo, che noi europei facemmo dopo la Seconda guerra mondiale. E va compiuto fermando, prima ancora del sangue, il discorso d’odio che ne è presupposto. Se chi scenderà in piazza nei prossimi giorni in Italia riuscirà a ricordarlo, quelle manifestazioni troveranno infine un senso tutto nuovo.

corriere.it/opinioni/25_giugno_03/i-valori-e-le-parole-per-ritrovarli-2c610d31-6875-47bb-af50-4d0125648xlk.shtml

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