Il Presidente degli Stati Uniti l’aveva promesso in campagna elettorale e l’ha fatto: ad aprile ha alzato i dazi a tutti. Per cercare di essere ecumenico ha infatti imposto il 10% a tutti i paesi indistintamente, ma la sua scure si è abbattuta con maggior forza su quei 57 paesi che lui definisce “worst offenders”. Ovviamente, secondo Trump, tra questi non potevano mancare né la Cina (con tanto di escalation per qualche settimana fino alla tregua di maggio) né l’Unione europea. Il risultato complessivo è che i dazi applicati dagli USA e pesati per il loro commercio sono aumentati da poco più del 2% a gennaio scorso a quasi il 9% a maggio 2025. Si tratta del tasso più alto applicato dal paese negli ultimi 80 anni. Tutto ciò mentre non appare chiaro cosa succederà nei rapporti USA-UE. Dopo il posticipo nell’applicazione dei dazi fino al 9 luglio, Trump ha rincarato la dose minacciando Bruxelles con dazi al 30% a partire da agosto se non si troverà un accordo. A prescindere da come andrà a finire la partita, qual è la logica dietro la strategia commerciale di Trump? Ha forse ragione nel dire che quasi tutti i paesi del mondo sono stati ingiusti nei confronti degli USA applicando condizioni allo scambio di merci ben più pesanti di quelle che gli USA applicavano a loro? La risposta è un secco ‘no’, ma è bene capire perché.
Alla ricerca di una logica
Il punto di partenza è l’affermazione di Trump secondo cui i dazi americani sono ‘reciproci’. In pratica risponderebbero alla necessità di replicare alle ingiuste barriere al commercio imposte dagli altri paesi del mondo a un paese – gli USA – che invece è tra quelli che applica(va) dazi tra i più bassi (spoiler: quest’ultima parte è l’unica cosa vera). Da qui il suo altisonante ‘Liberation Day’, come lui ha definito il 2 aprile, giorno in cui appunto gli USA si sarebbero liberati dalle ingiustizie impostegli da tutti i paesi del mondo. Proprio da tutti. Per Trump evidentemente le distinzioni tra alleati e non alleati, paesi democratici e non, non sono più applicabili. Per operare dunque questa “liberazione” da tutti la parola chiave è ‘reciprocità’, che però non significa – sempre secondo Trump – applicare grosso modo gli stessi dazi che gli altri applicano agli Usa. La ‘reciprocità’ secondo Trump è legata al deficit commerciale che gli USA hanno rispetto a ciascuno paese. In pratica, se c’è un deficit commerciale USA questo è dovuto al fatto che gli vengono ingiustamente applicate barriere tariffarie (ovvero dazi) e barriere non tariffarie. E, in particolare, tra quelle non tariffarie Trump fa rientrare di tutto, non solo vincoli tecnici/amministrativi, ma anche presunte ‘manipolazioni’ del tasso di cambio a favore di chi esporta negli USA.
Ecco perché la logica della ‘reciprocità’ trumpiana non può essere legata solo al livello dei dazi applicati agli USA: per Trump, la sola presenza di un deficit commerciale rappresenta una ingiustizia a cui porre rimedio. E’ proprio partendo da questa presunta ingiustizia che Trump ha annunciato il 2 aprile dazi ‘reciproci’ pari alla metà di tutte quelle barriere che vengono imposte agli USA. E si badi bene: solo la metà. Motivo per cui Trump si sarebbe dimostrato quasi magnanimo, “gentile”, come ha detto nel suo discorso del “Liberation Day”. Tra questa logica della reciprocità e la sua applicazione si pone però un problema: come calcolare tutte queste “ingiuste” barriere agli USA e ottenerne quindi i dazi reciproci. Come detto sopra, basta prendere la (semplicistica, a dir poco) esistenza del deficit. La formula che ne consegue appare qualcosa del genere: si prende il deficit commerciale degli USA verso un paese e lo si rapporta al valore totale dei beni importati da quel paese. La percentuale che si ottiene la si divide per due ed ecco ottenuto il dazio USA. Applichiamo questa formula per comprendere il 20% riservato all’Unione europea lo scorso aprile: nel 2024 il deficit commerciale UE verso gli USA valeva 235,9 miliardi di dollari (dati US Census Bureau); questo lo si divide per il totale delle importazioni USA dall’UE (605,7 miliardi) e si ottiene 0,39, ovvero il 39%. La metà è 19,5%, ma la magnanimità di Trump non è arrivata all’arrotondamento per difetto. Significativo il caso specifico dell’Italia: con un nostro surplus di 44 miliardi ed export negli USA pari a 76,3 miliardi nel 2024, il dazio per noi sarebbe dovuto essere il 29%. Semplificando: per un paese come il nostro che ha il terzo surplus commerciale nell’UE verso gli USA, stare nell’UE significa aver avuto uno ‘sconto’ del 9%. Per la Germania (che ha un surplus ancora maggiore verso gli USA) lo ‘sconto UE’ è di circa il 7%, un po’ meno del nostro. In questa logica, comunque piuttosto assurda, a perderci è la Francia che fuori dall’UE si sarebbe ritrovata con un dazio del 14% (la Spagna addirittura ha un deficit commerciale verso gli USA). Secondo il Financial Times, questa logica sembra applicarsi in modo piuttosto preciso ai primi 24 “worst offenders” degli USA, mentre per gli altri il dazio risultante è un po’ diverso, ma comunque non molto distante.
Se questa è una logica…
Pensare che il deficit commerciale verso un paese sia di per sé sempre sbagliato e che sia causato necessariamente da barriere di qualsiasi tipo imposte ingiustamente da questo paese non ha fondamento in economia. A partire da David Ricardo che si starà rivoltando nella tomba per lo strazio compiuto alla sua teoria dei vantaggi comparati. Il commercio internazionale in rapporto al PIL del mondo continuava a crescere prima di Trump 2, anche negli ultimi anni di grande rivalità geopolitica. Il motivo è semplice: il vantaggio che tutti traggono dal libero commercio. Pensare poi che il deficit commerciale sia sempre ingiusto e imposto dagli altri non solo non tiene conto delle preferenze dei consumatori (e dei risparmi che questi ottengono dall’acquistare beni meno cari all’estero), ma anche della complessità del commercio internazionale e dei ripetuti passaggi dei semilavorati tra paesi prima di arrivare a moltissimi prodotti finiti, negli USA come nel resto del mondo. Per non parlare del fatto che a volte il deficit commerciale è inevitabile: se un paese come gli USA in pratica non produce caffè e vuole consumarlo, come può non importarlo da un paese che lo produce? Stesso discorso lo si può fare per un prodotto ben più strategico come l’energia. Puoi estrarre, come gli USA fanno oggi, tanto petrolio e gas, ma se puoi acquistarli a buon prezzo da alcuni paesi (mentre magari li esporti ad altri), perché il relativo deficit con un paese rappresenterebbe un ‘vulnus’ o sarebbe l’effetto di pratiche commerciali sleali? Bisogna ammettere che almeno alcune di queste considerazioni base dell’economia sembrano conosciute dai consiglieri di Trump: non a caso i dazi di aprile non si applicavano all’energia, così come ai beni importati da Canada e Messico e rientranti nell’accordo USMCA del 2020. Tra questi ultimi, significativamente, ci sono quelli del comparto automobilistico (non comunque completamente esenti dai dazi settoriali introdotti in questi mesi dall’amministrazione Trump) per i quali gli scambi con gli USA sono intensi e su cui quindi il contraccolpo per l’industria americana sarebbe stato notevole.
I dazi, se non basati su acclarate pratiche sleali, sono in realtà un ‘vulnus’ per tutti, anche per chi li impone. Non è un caso che a gennaio per l’economia USA il Fondo monetario internazionale prevedesse una crescita del PIL reale pari al 2,7% nel 2025, mentre ad aprile ha ridotto la stima all’1,8%. Un fattore che ha peraltro influito sull’inflazione che negli USA rimane al momento relativamente contenuta malgrado i dazi.
Per coerenza, neanche la Ue dovrebbe quindi porre contro-dazi. Ed è un bene che finora l’UE si sia astenuta a porre contro-dazi che potrebbero dar vita a una guerra commerciale in cui tutti perdono. Ma a tutto c’è un limite, soprattutto se le richieste di Trump (nel frattempo arrivate al 30% di dazi) si basano su presupposti chiaramente sbagliati. Di fronte alle minacce di Trump, l’UE dovrebbe allora fare tre cose. Primo: serrare i ranghi e restare unita; ogni cedimento di questo o quel paese UE creerebbe crepe di cui solo Trump beneficerebbe. Secondo: negoziare fino all’ultimo momento per strappare un compromesso dignitoso (dazi al 10% con eccezioni ed esenzioni per alcuni settori, sul modello del deal USA-Regno Unito di maggio). Terzo: essere pronta e credibile sulle eventuali contromisure nella consapevolezza che nessun accordo è meglio di un cattivo accordo. Senza un accordo ci sarebbe infatti spazio per una ulteriore negoziazione e de-escalation (complici le inevitabili tensioni sui mercati). Un cattivo accordo invece rimarrebbe lì e sarebbe poi difficile convincere Trump a riaprire il negoziato.
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