Le parole. Quelle, sì, sono difficili da trovare, perché definirebbero un confine etico: ma bene e male «sono intrecciati» e quel confine «passa nel cuore di ciascuno», spiegava papa Francesco, non divide territori o gruppi umani. Eppure, sulle parole, dritte o ambigue, e sul loro utilizzo, si è basata una parte non piccola della battaglia per i cuori e le menti combattuta in questi diciannove mesi, dall’infame pogrom del 7 ottobre 2023 in terra d’Israele sino alla carestia annunciata, protratta e forse programmata nella Striscia di Gaza. Come fosse anche una guerra di marketing: la potente propaganda di Hamas rilanciata mille volte nelle università e nelle piazze occidentali contro la hasbara, la rete di pubbliche relazioni israeliane per rendere più accettabili scelte ogni giorno più indigeste.
E allora conviene aggrapparsi alle parole di chi sa, perché ne ha vissuto il senso sulla propria carne. Siamo passati dal miraggio di due popoli in due Stati alla realtà di «una trappola per due popoli» fondata sull’odio, dice Liliana Segre alla nostra Alessia Rastelli nel libro Non posso e non voglio tacere, riflessioni di una donna di pace, edito da Solferino. No, non si possono mettere sullo stesso piano gli architetti di questa trappola: di qua dittature di islamisti dediti all’annientamento dello Stato ebraico e di là un governo democraticamente eletto nell’unica, per quanto ammaccata, democrazia del Medioriente. E, tuttavia, diciannove mesi e molti morti dopo, è ineludibile quel sentimento di «repulsione» che Segre ammette di provare verso le azioni dell’esecutivo di Gerusalemme, ricordiamolo, pesantemente condizionato dalla destra religiosa e radicale. Non è giusto parlare di genocidio, ci spiega chi ne è stata bersaglio da ragazzina, e tuttavia non si può tacere sulle stragi e le atrocità sofferte dai gazawi in una guerra di reazione che ha perso ogni proporzionalità.
Il confine delle parole è tutto, nella grande tragedia che incatena tra loro israeliani e palestinesi. E bisogna rispettarlo, per non perdersi nella terra di nessuno del relativismo. Israele combatte dalla fondazione una guerra «esistenziale», avendo detto sì nel 1947 alla risoluzione Onu 181 sui due Stati e avendone ricevuto in contraccambio la prima aggressione della Lega Araba nel 1948. Questa natura di sopravvivenza inscritta in ogni guerra israeliana ci viene rammentata ciclicamente dai suoi leader, «dobbiamo vincere perché non avremmo nessun altro posto dove andare». E non è un modo di dire, le parole hanno un senso: «Palestina libera dal fiume al mare», slogan di tante sfilate pro-Pal, postula semplicemente un’idea nazista, la stessa che il Gran Muftì di Gerusalemme condivideva con Hitler, la scomparsa degli ebrei dalla faccia della terra. Sicché la guerra esistenziale è sempre disperata, isola chi la conduce anche se la vince, anzi, soprattutto se la vince, imprigionandolo dentro una dimensione perennemente bellica, rendendolo rispettato e abietto al tempo stesso. «Dobbiamo essere percepiti dal nemico come un cane pazzo, troppo pericoloso per essere disturbato», sentenziava Moshe Dayan, che impersonava l’intera epopea dello Stato ebraico, sabra nato in un kibbuz, adolescente nell’Haganah, eroico trionfatore della guerra dei Sei Giorni.
Ma la guerra esistenziale si può imbattere nella voragine morale della guerra asimmetrica, di cui molto ha detto Michael Walzer: quella nella quale il più debole combatte facendosi usbergo del proprio popolo, una guerra insurrezionale condotta in mezzo a donne e bambini, dentro scuole e ospedali, riversando sul più forte, sull’esercito avversario ad alta tecnologia, il carico della scelta etica, il preavviso del bombardamento che di rado salva davvero gli innocenti, il fardello di esodi di massa che troppo ricordano le deportazioni. Il senso di colpa. La contraddizione insanabile. All’esercito di Gerusalemme si chiedeva forse l’impossibile: preservare l’umanità anche per conto d’un nemico che per diciannove mesi ha seviziato nei tunnel di Gaza duecentocinquanta israeliani catturati il 7 ottobre; ricordare ogni giorno il rigido codice etico dell’Idf e i dettami stessi del Talmud, che non discrimina tra appartenenze quando rammenta il valore universale d’una singola vita da salvare. Si può dire che Netanyahu e i suoi compagni di viaggio si siano fermati molto al di sotto di questi obiettivi. «C’è una dolorosa verità al centro di questa guerra, la vita dei palestinesi comuni è devastata», ha dichiarato ad Haaretz il colonnello Peter Lerner, già portavoce dell’Idf per i media stranieri: «Se ci deve essere una speranza di porre fine a questa guerra senza piantare i semi degli estremisti della prossima generazione, la strategia deve cambiare». Non sembra andare in questo senso l’ultima strategia annunciata dal governo israeliano, con una pianificata occupazione di territori e nuovi spostamenti coatti della popolazione. Netanyahu combatte ormai per la propria sopravvivenza politica. Ma non pochi tra i suoi connazionali sembrano decisi a battersi piuttosto per la loro anima e per la loro democrazia, non considerandole scindibili. Il capo di stato maggiore dell’Idf, Eyal Zamir, ha ammonito gli estremisti al governo: «Non possiamo affamare la Striscia, esiste il diritto internazionale e noi ci impegniamo a rispettarlo». Channel 12 aveva appena mostrato un gruppo di bambini palestinesi che si contendevano strillando un mestolo di zuppa, in una Gaza dove non entrano aiuti da due mesi. A raccontare, senza l’incertezza delle parole e con la forza di un’immagine, un confine violato in molti cuori.
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