I candidati alle europee tra consenso e competenze, di Sergio Fabbrini

Tra pochi giorni (21 e 22 aprile), i partiti dovranno presentare le loro liste di candidate e candidati per l’elezione del Parlamento europeo che si terrà l’8 e il 9 giugno prossimi. Con l’eccezione della coalizione di “Stati Uniti per l’Europa”, i maggiori partiti di governo e di opposizione non hanno detto una parola sul significato di quelle elezioni, impantanandosi in discussioni esoteriche su quali candidati possono “attrarre più voti”, anche se quei candidati (si pensi a due persone di opinione opposta come Roberto Vannacci e Ilaria Salis) non hanno un’idea di cosa sia l’Unione europea (Ue) e soprattutto quali siano i poteri del Parlamento europeo. Poi ci lamentiamo che i nostri interessi non sono presi in considerazione a Bruxelles. La Germania è influente nel Parlamento europeo non solamente perché dispone della rappresentanza più numerosa (96 su 720 membri), ma perché i suoi parlamentari europei si sono specializzati in politiche europee.
In quel Paese, si sono create due carriere di rappresentanza distinte, la prima per il Parlamento nazionale (Bundestag) e la seconda per il Parlamento europeo. Da noi, invece, è un’insalata russa. Si mescolano i candidati, senza sapere per fare cosa.
Dunque, qual è il ruolo del Parlamento europeo? Nato, nei Trattati di Roma del 1957, come un’istituzione ad elezione indiretta (i suoi membri venivano scelti dai parlamentari nazionali dei Paesi che avevano dato vita, o sottoscritto, i Trattati), il Parlamento europeo ha cambiato ruolo e composizione con la sua elezione diretta, introdotta per la prima volta nel 1979 grazie alla “rivoluzione costituzionale” ispirata dal nostro Altiero Spinelli. Con l’elezione diretta, una triangolazione si è sviluppata. La Commissione europea dispone del monopolio dell’iniziativa legislativa, monopolio che le consente di elaborare provvedimenti legislativi che poi, con maggioranze diverse, il Consiglio dei ministri e il Parlamento europeo dovranno approvare. Quei provvedimenti consistono in regolamenti (che vanno applicati come tali dagli stati membri) e direttive (che definiscono gli obiettivi da raggiungere, lasciando gli stati membri liberi di scegliere i mezzi). È l’integrazione attraverso la legge o il diritto, nella quale la Corte europea di giustizia ha esercitato un ruolo cruciale di supervisione del processo legislativo, contribuendo a costruire un mercato sovranazionale che è il più grande al mondo. Dunque, rispetto ai parlamenti nazionali, quello europeo non ha il potere di iniziativa legislativa, anche se dispone di mezzi informali per farsi sentire. Non può averlo, quel potere, perché non ha un suo budget, essendo quest’ultimo costituito dai trasferimenti finanziari degli stati membri. Ciò nondimeno, nelle politiche regolative del mercato unico (che consistono in norme e non in impegni di spesa), il potere del Parlamento europeo è cresciuto sistematicamente dal 1979. Con il Trattato di Lisbona la triangolazione è divenuta la procedura legislativa ordinaria. I candidati sanno come si regola il mercato unico più grande al mondo?
Tuttavia, a partire dal Trattato di Maastricht del 1992, l’agenda europea è divenuta sempre più determinata dalle politiche strategiche, quelle tradizionalmente vicine al cuore delle sovranità nazionali (la politica fiscale, la politica estera e di difesa, la politica della sicurezza, la politica degli affari interni, la politica dell’asilo politico), politiche rese ancora più centrali dalle crisi multiple del post-2009. In queste politiche, le decisioni vengono prese esclusivamente dal Consiglio europeo (dei capi di governo nazionali) e dal Consiglio dei ministri, secondo una logica strettamente intergovernativa. Quelle decisioni, prese a Bruxelles, vengono poi implementate dalle amministrazioni nazionali degli stati membri. Dopo tutto, sono i governi nazionali, e non le istituzioni sovranazionali, che controllano le risorse con cui le politiche strategiche vengono promosse. La fiscalità è nazionale, la forza militare è nazionale, la difesa dei confini è nazionale. I governi coordinano le loro risorse nazionali, ma ognuno mantiene il controllo sulle proprie. Poiché le decisioni hanno un carattere politico, nella governance intergovernativa non c’è posto per il Parlamento europeo, tanto meno per la Corte e ce ne è uno limitato anche per la Commissione europea. Così, il Parlamento europeo, che ha visto crescere sistematicamente i suoi poteri nelle politiche regolative del mercato unico, è tenuto ai margini delle politiche strategiche dai governi nazionali. Il Parlamento europeo può controllare la Commissione, ma non può controllare i governi nazionali (che pure prendono decisioni che influiscono sulla vita dei cittadini europei). Così prevedono i Trattati che hanno creato un’Ue con due motori, uno sovranazionale e l’altro intergovernativo. Il primo ha un carattere democratico, il secondo tutt’altro. Questa situazione di Parlamento dimezzato va bene ai candidati oppure vogliono superarla?
Insomma, il Parlamento europeo è un progetto inconcluso. È un caso senza precedenti di representation without taxation, l’opposto di ciò che portò alla rivoluzione americana contro gli inglesi nel 1776. Varrebbe la pena sapere chi, tra i candidati dei maggiori partiti, vorrebbe dotarlo di capacità (a cominciare da quella fiscale) anche nelle politiche strategiche, oppure vorrebbe delimitarne il ruolo pure nelle politiche regolatorie.

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