Gli imperi moderni, di Paolo Valentino

Ieri sera al Cremlino, Vladimir Putin ha brindato con l’amato Shampanskoe Novij Svet, il vino spumante prodotto in Crimea, la penisola che ora sa di aver per sempre ricongiunto alla Russia. Novij Svet significa Nuovo Mondo e come da noi è uno dei nomi che i russi usano per l’America. 
L’annuncio della «lunga e produttiva» telefonata con Donald Trump, la prima ufficialmente confermata dopo l’insediamento alla Casa Bianca, ha per Putin valore esistenziale. Parte da subito il negoziato per porre fine alla guerra in Ucraina. 
Ma una frase del presidente americano soprattutto lo colpisce al cuore: «Abbiamo parlato della forza delle rispettive nazioni e dei grandi benefici che avremo un giorno lavorando insieme». Con la promessa che presto i due leader s’incontreranno, l’invito a Mosca è già stato formulato, è il riconoscimento alla Russia del rango di Grande Potenza che per Putin è missione e ossessione.
Ma per cercare di capire quale sia la sostanza dietro l’ennesimo coup de théâtre del presidente Usa, bisogna guardare a cosa è successo ieri a Bruxelles, al vertice dei Paesi che sostengono Kiev. Nella capitale d’Europa, spettatrice timorosa e balbettante degli scenari in fieri, il nuovo segretario alla Difesa, Peter Hegseth, ha detto che Washington «non crede che l’adesione dell’Ucraina alla Nato possa essere l’esito realistico di una trattativa». Di più, il capo del Pentagono ha definito «illusorio perseguire l’obiettivo di un ritorno dell’Ucraina ai confini del 2014», quando gli omini verdi di Putin invasero la Crimea. Hegseth ha anche spiegato che una volta raggiunto un accordo di pace, sarà responsabilità in massima parte dei Paesi europei, in un quadro esterno alla Nato, dare robuste garanzie di sicurezza all’Ucraina, fornendole aiuto «letale e non letale», cioè, sia militare sia economico. In ogni caso, non ci saranno mai truppe americane sul terreno.
Senza scadere nella «trumpologia», l’uscita di Hegseth sembra spiegare piuttosto bene l’approccio neo-imperiale di Donald Trump, al netto della volubilità e imprevedibilità del personaggio. Per il presidente americano la grande politica internazionale è solo uno scontro tra personalità, uomini forti alla guida di moderni imperi. Il suo cruccio è la Cina e anche per questo vuole accordarsi con Putin, capo di un impero fatto solo di armi atomiche e materie prime, un modo per allentare l’abbraccio asfissiante che Xi Jinping, convitato di pietra di questa partita, esercita sul leader del Cremlino. Accordarsi su cosa? Intese per ridurre i rischi di una guerra nucleare, per esempio. Oppure per sfruttare insieme i nuovi corridoi commerciali e le possibilità di estrazioni che lo scioglimento dei ghiacciai apre nell’Artico.
Ma per avere via libera a una nuova bromance con Putin, in funzione anti-Pechino, Donald Trump deve eliminare l’«ostacolo» della guerra in Ucraina, magari con un pensiero al Premio Nobel per la Pace, fosse pure concedendogli il 25% del suo territorio e rendendola di fatto neutrale, lontana dalla Nato e con limiti alle sue forze armate. Volodymir Zelensky assapora un calice amaro: non era informato del piano di pace, e solo dopo il lungo dialogo con Putin Trump lo ha chiamato.
 L’Europa morde un triste crepuscolo. È chiamata a dotarsi di risorse militari che non ha e non sembra disposta a darsi. Non immagina neppure di poter dar vita a una forza di pace, priva del sostegno Usa. E dovrebbe pensare e agire unita, mentre invece la linea di Trump rischia di approfondire le sue divisioni.

corriere.it/opinioni/25_febbraio_12/gli-imperi-moderni-eecc89d6-ba09-4fcc-ad22-a65c176caxlk.shtml?refresh_ce

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