Immaginate una stanza dove due persone siedono ai lati di un tavolo: non solo divergenze, ma storie sospese, emozioni segnate da ferite e silenzi mai colmati. Al centro, in ascolto, il mediatore: non un giudice, né un arbitro, ma un architetto invisibile di ponti, artefice di legami da ricostruire.
Qui si compie la rivoluzione della giustizia. Grazie alle recenti riforme, la mediazione si emancipa da mero strumento burocratico per affermarsi come filosofia di vita e nuova visione del conflitto. Diventa non solo alternativa al tribunale, ma istituto giuridico in cui il dissenso si fa opportunità di crescita, e la riparazione investe le anime, non solo le cose.
Cos’è la mediazione? Non una tecnica arida o una scorciatoia, ma un percorso in cui ascolto e rispetto reciproco si traducono in strumenti di trasformazione. Il conflitto viene accolto come realtà da comprendere, e le differenze si rivelano risorse preziose per evolvere.
A guidare questo cammino è il mediatore, figura discreta e sapiente, capace di muoversi tra emozioni complesse senza farsene sopraffare. Illumina le zone di luce insite in ciascuno, contenendo le ombre con equilibrio etico e umanistico. Non si tratta di imporre accordi con carisma, ma di fare chiarezza nelle emozioni, lasciando emergere intenzioni condivise.
Il mediatore stimola le persone a diventare protagoniste consapevoli del proprio percorso e delle soluzioni più rispondenti alle esigenze. Ogni mediazione efficace è il frutto di un/una professionista che conosce i propri limiti, coltiva il proprio benessere e affina la propria arte. Rischi reali esistono, in mediazioni svuotate e superficiali, ridotte a scambi economici senza vera riparazione. Tuttavia, chi abbraccia la mediazione autentica pone la vigilanza sulla qualità e il rispetto della relazione tra i pilastri imprescindibili del proprio operato.
La società può trarre immenso beneficio da questa rivoluzione, ancora poco valorizzata ma portatrice di una visione elevata. A condizione che tutti, ciascuno nel proprio ambito di competenza, si impegnino a integrare la cultura della mediazione nella formazione scolastica, legale e civile, cultura che apre la strada a una convivenza più consapevole, a una cittadinanza attiva fondata su dialogo e riparazione, a un uso consapevole del nuovo istituto che viene offerto. Attraverso la mediazione si supera la sentenza del tribunale, giungendo a ricomposizioni, risarcimenti e ravvedimenti. Ma questo non avviene senza un serio percorso: la mediazione profonda, radicata, secondo il mio pensiero, in un modello umanistico-filosofico, riconosce il conflitto come espressione dell’animo umano, fatto di luce e ombra. Il mediatore non è un ingenuo custode di ideali irreali, ma un/una professionista che accetta questa complessità e guida le parti a valorizzare le tensioni verso il benessere, lasciando ai margini le zone d’ombra. La sua nobiltà risiede nel saper intervenire non su persone sane, ma su individui malati di relazioni compromesse, agendo con maestria come un chirurgo attento.
Un tema centrale è la responsabilità nella formazione di questa nuova figura: dopo aver definito la base epistemologica della mediazione e scelto i modelli operativi più efficaci, serve una proposta di formazione rigorosa e creativa che sviluppi le competenze necessarie. Ritengo debba essere operativa e coinvolgente. Nel contempo oltre che creare mediatori professionali, vale la pena arricchire ogni professionista con la consapevolezza e gli strumenti mediativi, educando tutti a mitezza, pazienza e rispetto dell’altro, riconoscendo la diversità come valore.
La mediazione insegna a fronteggiare il conflitto superandolo attraverso il dialogo, aprendo alla riconciliazione e disinnescando la violenza dello scontro. Essa aiuta a comprendere e denunciare le cause di ingiustizie, disuguaglianze e violazioni dei diritti umani fondamentali. E questa è una competenza necessaria in ogni professione. Come è stato giustamente osservato, «I fiumi di sangue sono sempre preceduti da torrenti di fango». In questi torrenti abbiamo fatto scorrere immoralità, egoismi, corruzione, tradimenti, menefreghismo e sprechi di energie vitali.
Diffondere la cultura della mediazione è una opportunità che valorizza altre logiche e comporta vantaggi personali e sociali. Non basta affidarla a un’iniziale introduzione formale nella prima seduta: occorre un piano per coinvolgere il maggior numero possibile di cittadini. Generalizzare il senso di questa linea di pensiero, che, come espresso nel mio saggio Il senso della mediazione dei conflitti. Tra diritto, filosofia e teologia (Giappichelli, pagg. 224), pone le sue basi nel diritto, nella filosofia e nella teologia è la via per scongiurarne la banalizzazione. Dovrebbe essere un impegno prioritario a cui, indipendentemente dal ruolo, ci sentiamo chiamati tutti.
*Già Giudice Onoraria presso la Corte d’Appello di Milano
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