Giustizia è il dovere della compassione, di Vittorio Pelligra

Quando Peter Singer approda a Oxford nel 1969, è un giovane studente australiano con l’aria distratta e le tasche vuote. Non immagina che da quella città grigia e austera prenderà forma una delle rivoluzioni morali più influenti del secolo. Figlio di ebrei viennesi scampati al nazismo ma cresciuto in una terra lontana dalle tragedie europee, Singer sentirà sempre forte la tensione tra distacco e responsabilità. L’eco dell’orrore non lo abbandona e, maturando, si tradurrà in una domanda che giocherà un ruolo centrale nella sua filosofia: come possiamo giustificare l’indifferenza verso la sofferenza altrui?
Quando, ventenne, lascia Melbourne per l’Inghilterra, la filosofia per lui è soprattutto esigenza di chiarezza logica: capire, definire, distinguere. Ma a Oxford, durante un seminario su Jeremy Bentham, accade qualcosa che lo segnerà per sempre. Una citazione del filosofo letta quasi di passaggio, gli resterà incisa come un comandamento laico: “La questione non è se possono ragionare o possono parlare. La questione vera è se possono soffrire” (cit. in Practical Ethics, Cambridge University Press, 1993, p. 50). In quelle poche parole Singer trova la chiave di una nuova etica. La filosofia smette di essere un mestiere dello spirito e diventa, per lui, un compito pratico: capire come ridurre la sofferenza del mondo. Non si tratta più di chiedersi che cosa sia il Bene in senso metafisico, ma di calcolare con precisione le conseguenze delle nostre azioni, di rendere la compassione il motore delle nostre azioni.
Da quella spinta nasce un approccio lucido, esigente, capace di giudicare le scelte individuali e collettive non secondo le emozioni, ma secondo gli effetti reali che esse producono. Singer immagina, come scriverà più tardi, di poter guardare il mondo da un “non luogo, senza corpo e senza identità, come una coscienza pura che osserva la gioia e il dolore distribuiti nell’universo. Da quella prospettiva impersonale, impareremmo che la finalità ultima di una vita giusta non può che essere il “desiderare la massima felicità per il maggior numero possibile di esseri viventi(Practical Ethics, p. 12).
È questa la postura morale che definisce tutta la sua filosofia: spostarsi dal punto di vista umano a quello universale, dalla parzialità dell’io alla giustizia dell’imparzialità. Un’etica che misura la bontà delle azioni come si risolte un’equazione, ma per restituire al calcolo un’anima; l’anima della compassione che diventa risposta razionale alla sofferenza altrui. Dietro la freddezza analitica, infatti, si nasconde una promessa antica, che la ragione possa ancora giustificare l’amore.

L’origine della morale: il cerchio che si espande
“Siamo animali – scrive in The Expanding Circlema animali che possono riflettere su se stessi” (p. 3). La nostra capacità di cooperare, di preoccuparci per gli altri, ha radici biologiche: è una strategia di sopravvivenza che la ragione ha trasformato in principio universale. Da questo incontro tra istinto sociale e riflessione nasce ciò che Singer definisce “il cerchio che si espande”, l’evoluzione della compassione. “All’inizio, le affezioni benevole abbracciano solo la famiglia; presto il cerchio si allarga fino a includere una classe, poi una nazione, poi tutta l’umanità, e infine… il mondo animale” (p. 118). L’etica non è altro che il racconto di questa espansione: il tentativo di superare, passo dopo passo, i confini del nostro interesse individuale e immediato. Nel tempo, questo movimento naturale diventa una scelta razionale: allargare il cerchio fino a comprendere ogni essere capace di soffrire. La ragione, scrive, ci permette di “superare i limiti che l’evoluzione ci ha imposto” (p. 120), di trasformare la simpatia in principio e la compassione in progetto. L’etica racconta così della natura che prende coscienza di sé. In questo passaggio evolutivo si intravede il nucleo dell’utilitarismo singeriano: la morale come perfezionamento della cooperazione. Ciò che in origine ci spingeva a proteggere i nostri cari diventa, con la ragione, un impegno verso ogni essere senziente.

La rivoluzione dell’etica pratica
Questa intuizione è alla base di Famine, Affluence and Morality, forse il suo saggio più influente e l’opera che lo farà conoscere al mondo. Se camminando sulla riva di un lago – ci chiede il filosofo – vedessimo un bambino che annega, saremmo disposti a rovinare i nostri vestiti per salvargli la vita?Certamente” è la risposta unanime. E allora – continua – perché non dovremmo comportarci allo stesso modo con i bambini che muoiono di fame a migliaia di chilometri di distanza, con una donazione di pochi dollari? La distanza, dice, non ha nessun valore morale. “Se è in nostro potere evitare un male grave senza sacrificare qualcosa di comparabile valore morale, allora dobbiamo farlo” (Philosophy and Public Affairs, vol. 1, 1972, p. 231). È la regola più semplice del mondo, e proprio per questo la più dirompente. La compassione e l’altruismo non sono un lusso, ma un dovere logico.
Negli anni successivi, il filosofo trasforma questa intuizione in un programma di vita. Un’“etica pratica” che non giudica, ma chiede conto delle conseguenze di ogni singola azione. Singer affronta i dilemmi più controversi, aborto, eutanasia, infanticidio, diritti degli animali, sempre con lo stesso approccio: pesare la quantità di sofferenza e di felicità che ogni azione produce. “La morale – scrive in Pratical Ethics è ciò che resta quando smettiamo di fare eccezioni per noi stessi” (p. 10).
Dietro la chiarezza logica si avverte in Singer un fervore quasi religioso per la vita. Il bene non è un concetto ma una responsabilità concreta. Ed è questa la coerenza che lo condurrà a pubblicare Animal Liberation (1975), uno dei testi fondativi dei movimenti animalisti. L’errore dell’umanità, spiega, è stato costruire il proprio dominio sulla disuguaglianza della sensibilità: ritenere che la superiore capacità umana nel ragionare giustifichi la sofferenza inflitta a chi non può parlare. La distinzione tra uomini e animali è per lui un pregiudizio morale, non un fatto naturale. “È sbagliato attribuire minore considerazione agli interessi di esseri viventi solo perché appartengono a una specie diversa (…) Dare preferenza alla vita di un essere soltanto perché appartiene alla nostra specie è una forma di specismo, un pregiudizio non meno arbitrario del razzismo o del sessismo” (Practical Ethics, p. 57–58). In questa formula si condensa la sua idea di uguaglianza: la vita di ogni essere vivente capace di provare sofferenza merita uguale considerazione. Lo “specismo”, termine che si diffonde nel dibattito filosofico grazie a Singer, diventa l’equivalente morale del razzismo e del sessismo. È il passo definitivo nell’espansione del cerchio morale che supera i confini della specie.

Dalla morale alla politica del mondo
Col passare degli anni, l’orizzonte di Singer si fa sempre più ampio. In One World: The Ethics of Globalization (2002) propone una forma di cosmopolitismo pratico: un’etica per un pianeta caratterizzato da sempre maggiori interdipendenze. La globalizzazione, dice, ha reso visibili legami che prima erano nascosti. Il nostro benessere quotidiano dipende da catene di produzione che attraversano continenti, e ogni scelta economica o ambientale è, per questa ragione, anche una decisione morale. “Viviamo in un mondo in cui le nostre azioni influenzano la vita di persone che non conosceremo mai. Ignorarlo non è neutralità: è complicità” (p. 8). Da questa stessa visione nasceranno The Life You Can Save (2009) e The Most Good You Can Do (2015),opere che stanno alla base del movimento dell’“altruismo efficace”; una comunità di persone che si propone di massimizzare l’impatto morale dell’utilizzo delle proprie risorse. “Vivere una vita pienamente etica – scrive Singer – significa fare il maggior bene che possiamo” (2015, p. vii). Non è carità, ma efficienza morale perché il pensiero non ha valore se non diventa prassi. E questa prassi, nell’epoca dell’interconnessione, si misura con la capacità di costruire un bene collettivo attraverso scelte individuali. Ogni donazione, ogni gesto, ogni rinuncia diventa parte di un calcolo morale più ampio. In Ethics in the Real World (2016), la sua raccolta di saggi più matura, Singer torna sui grandi temi del nostro tempo — la povertà, il clima, la biotecnologia, l’intelligenza artificiale — ma la domanda di fondo non cambia: come possiamo ridurre la sofferenza e come accrescere la felicità complessiva?La felicità – scrive – non è un diritto privato, ma una responsabilità condivisa” (p. 142).
Dietro la figura di questo professore che può apparire austero e perfino intransigente c’è, in realtà, un pensatore che crede ancora nella possibilità di un’etica universale e laica. Un uomo che ha cercato di restituire alla ragione la sua funzione più nobile: prendersi cura degli altri e del pianeta. Molti lo hanno accusato di ridurre la morale a una contabilità del piacere, in puro stile utilitarista, ma in realtà Singer tenta di salvarla dal sentimentalismo inefficace. La pietà senza logica può essere cieca, ma la ragione senza pietà è sterile.
E forse la lezione più profonda del suo pensiero sta proprio qui: nella convinzione che la giustizia non debba essere tanto una distribuzione di beni, ma una “redistribuzione della sensibilità”. Pensare moralmente significa allargare il perimetro del nostro sentire, fino a riconoscere nell’altro, umano o animale, una parte di noi stessi. E che, quando la ragione smette di difendere i privilegi e inizia a difendere la vita, può ancora essere la forma più alta di compassione.

 

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