Gaza, il doppio tradimento, di Antonio Polito

Due grandi democrazie stanno tradendo in queste ore alcuni dei valori che ce le hanno rese così care.
 La prima è Israele. Con l’invasione di Gaza City, ciò che era cominciata come una guerra ad Hamas si trasforma definitivamente in un’operazione di espulsione (presumibilmente per sempre) dei suoi abitanti palestinesi e di ripulitura del luogo. La distruzione non basta più, siamo ora entrati nella fase Caterpillar: la rimozione dei laterizi con i giganteschi bulldozer D9 che spianano il terreno, un efficiente lavoro di movimento-terra. Come mostrano le immagini satellitari, lì dove c’erano le macerie create dai bombardamenti ora stanno facendo un deserto.
L’obiettivo è ormai chiaramente quello al quale ci eravamo finora rifiutati di credere davvero: cacciare quanti più palestinesi è possibile, e mettere il resto nelle «città umanitarie», praticamente prigioni a cielo aperto. «Il mio piano, una volta conclusa la vittoria di Gaza — ha detto il ministro della sicurezza di Israele, Ben Gvir, e non c’è ragione di non credergli — è costruire lì un quartiere di lusso per i poliziotti, con vista sul mare. Sarà uno dei posti più belli del Medioriente». Seppure in versione securitaria, con meno cocktail e più divise, è l’altra faccia della Gaza Riviera che sogna Trump.
Al posto di una qualsiasi soluzione politica con i palestinesi, Israele ha dunque scelto il loro esodo. È il capovolgimento totale della linea «pace in cambio di territori» che portò Ariel Sharon, venti anni fa, a ritirarsi dalla Striscia. Uomo di destra, spaccò il suo partito, il Likud, se ne fece uno nuovo e si alleò con il laburista Peres pur di lasciare Gaza. Cacciando con la forza migliaia di coloni ebrei che resistevano allo sfratto, lasciò ai palestinesi un primo lembo di Stato da amministrare. La morte di Sharon, e la sciagurata vittoria elettoral-militare di Hamas nella Striscia, ci hanno portato fin qui. 
A Netanyahu non sembrò infatti vero di poter trasformare Gaza in un grande ghetto, praticamente consegnandola agli islamisti, in cambio della sconfitta della Autorità Nazionale che era stata di Arafat, di nuovi insediamenti ebraici in Cisgiordania, e dunque del fallimento del sogno di uno Stato palestinese. Strategia rivelatasi suicida, perché ha avuto la sua parte di responsabilità nel disastro di sicurezza del 7 ottobre, con il feroce «pogrom» perpetrato dai terroristi di Hamas.
Ora, dopo aver trasformato il ghetto in una fossa comune, Netanyahu si riprende la Striscia con una guerra senza quartiere che identifica il popolo palestinese con Hamas, e che per questo durerà per generazioni. L’obiettivo storico di Israele, difendersi con le armi dai suoi nemici per fare con loro la pace, come era avvenuto con l’Egitto o con la Giordania, si è capovolto nel suo contrario: la guerra permanente su sette fronti, colpendo anche chi, come l’Oman o il Qatar, si presentava come mediatore. 
Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza la tacita, magari sofferta, ma indiscutibile acquiescenza degli Stati Uniti di Trump. E qui veniamo all’altra grande democrazia che sta tradendo la sua storia in Medioriente. La visita del segretario di Stato Rubio è apparsa chiaramente un sostanziale via libera all’operazione di Gaza City. Ricordiamo che l’ultima tregua nella Striscia è stata firmata durante gli ultimi giorni della presidenza Biden. Il cessate-il-fuoco andò in vigore il 19 gennaio di quest’anno. Il giorno dopo The Donald è entrato alla Casa Bianca, e da allora Netanyahu ha avuto carta bianca (più meno come Putin in Ucraina).
Ma gli Stati Uniti, grandi protettori di Israele e del suo sacrosanto diritto a esistere, sono stati sempre anche grandi moderatori di Israele. Nel 1956 fermarono la guerra di Suez, e alla presidenza c’era un repubblicano, Eisenhower. Nel 1978 ottennero la pace tra Israele ed Egitto in cambio della restituzione del Sinai occupato, e alla presidenza c’era il democratico Carter. Nel 1993 fu Clinton l’artefice degli accordi di Oslo, la pace tra Israele e i palestinesi, tra Rabin e Arafat. Perfino Bush Jr, con la sua road map for peace, riuscì a fermare gli insediamenti di coloni in Cisgiordania e a Gaza, fino al vero e proprio ritiro da parte di Sharon.
Anche Trump, nella prima presidenza, inseguì una ipotesi di pacificazione del Medioriente, seppur basata su una sua idea «commerciale», e cioè sulla convenienza comune allo sviluppo dell’area e alle opportunità di affari che può aprire. Gli Accordi di Abramo, firmati con Emirati Arabi, Bahrein, Sudan e Marocco, furono il primo passo. L’ipotesi di conquistare l’Arabia Saudita a questo processo di trasformazione del Golfo in crocevia dei traffici tra Asia ed Europa e in nuovo hub globale dellIntelligenza Artificiale, in cambio di mille miliardi di dollari di investimenti sauditi negli States (più un golf club, qualche affare alberghiero per la famiglia e un lussuoso Jumbo in regalo dal Qatar) era al centro del suo viaggio recente nei Paesi più ricchi del Golfo. Ma richiedeva, e richiede, se non la pace almeno la tregua a Gaza. La fine dell’offensiva militare di Israele. Disinnescare l’odio.
Forse il problema di Trump è proprio questo: disprezza troppo la politica per capire che in Medioriente finirà per avere sempre il sopravvento anche sugli affari, perché in gioco ci sono i popoli, il loro sangue, le storie, la cultura, e il potere. Cosa che Netanyahu capisce meglio di lui. Purtroppo per tutti noi.

corriere.it/opinioni/25_settembre_16/gaza-il-doppio-tradimento-922b04d2-b4b8-462a-aac7-52ddd4c38xlk.shtml

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