Gaza e il ritorno della partecipazione, di Giuseppe Savagnone

I più anziani assicurano che da decenni non si assisteva a una mobilitazione popolare come quella del 22 settembre, in seguito allo sciopero generale indetto dell’Unione sindacati di base (USB) per Gaza. I giornali governativi hanno cercato invano di minimizzare la portata della manifestazione, parlando addirittura di un flop.
A smentire questi tentativi di disinformazione ci sono – alla portata di tutti – le foto e i video dei cortei che in più di 80 città italiane hanno coinvolto un numero di persone strabocchevole, mai visto ultimamente. I numeri ufficiali, come sempre in questi casi, variano molto. Ma sicuramente si è trattato di centinaia di migliaia di partecipanti.

Una imponente manifestazione e le sue ragioni
Al di là dell’aspetto quantitativo, ha colpito gli osservatori quello qualitativo. C’erano le persone più diverse: hanno sfilato per ore l’uno accanto all’altro operai, professionisti, madri di famiglia coi bambini in passeggino, anziani e anziane, ragazzi e ragazze di tutte le età. Un popolo.
Il destinatario della protesta, ovviamente, non erano Netanyahu e Hamas, i diretti responsabili, ma il nostro governo, che in tutto questo tempo ha sempre limitato unilateralmente la sua condanna ai terroristi islamici, per il massacro del 7 ottobre e la detenzione degli ostaggi, rifiutando invece di prendere posizione nei confronti della carneficina, di proporzioni enormemente superiori, che da quasi due anni Israele sta perpetrando.
La nostra premier continua a ripetere che nessuno Stato ha fatto tanto per Gaza quanto il nostro. Ma i fatti parlano diversamente. L’Italia si è rifiutata di votare ben tre risoluzioni dell’Assemblea dell’ONU – rispettivamente il 27 ottobre 2023, il 13 dicembre dello stesso anno, il 15 settembre 2024 – volte a chiedere il cessate il fuoco e a fermare il massacro di civili. E, sempre in nome dell’esigenza di «non isolare Israele», ha addirittura accolto per due volte a Roma, con tutti gli onori, il presidente israeliano Herzog, proprio in questi giorni riconosciuto colpevole dalla Commissione indipendente dell’ONU del crimine di «genocidio».
Solo alla fine di agosto Meloni, davanti all’insorgere dell’opinione pubblica internazionale, ha ammesso che la reazione israeliana «è andata oltre il principio di proporzionalità, mietendo troppe vittime innocenti». Ma alle parole – peraltro molto blande – non hanno fatto seguito, da parte dell’Italia, né la sospensione delle forniture di armi, né quella del sostegno economico allo Stato ebraico. E anche il riconoscimento dello Stato palestinese – unico argine al dichiarato progetto israeliano di cancellare la popolazione di Gaza e della Cisgiordania – è stato definito dal ministro degli Esteri Tajani «prematuro».
Al nostro Paese Netanyahu non poteva chiedere di più. Anche rispetto agli altri Governi europei, quello dell’Italia è stato insieme a quello degli Stati Uniti, il suo più fedele amico.
Era dunque al Governo italiano che le centinaia di migliaia di manifestanti hanno chiesto un drastico cambio di passo, per cui, senza abbandonare la richiesta del rilascio degli ostaggi da parte di Hamas, si arrivi finalmente alla condanna di ciò che Israele sta facendo ai civili e a una pressione concreta per il cessate il fuoco, attraverso l’interruzione dei rapporti militari e commerciali con lo Stato ebraico.
A questo appello che saliva dalle piazze Giorgia Meloni ha risposto semplicemente ignorandolo e concentrandosi sulla condanna dei tafferugli che poche centinaia di estremisti hanno scatenato devastando l’ingresso della stazione ferroviaria di Milano: «Indegne – ha detto la premier – le immagini che arrivano da Milano (…). Violenze e distruzioni che nulla hanno a che vedere con la solidarietà e che non cambieranno di una virgola la vita delle persone a Gaza, ma avranno conseguenze concrete per i cittadini italiani, che finiranno per subire e pagare i danni provocati da questi teppisti».
È stato notato che la presidente del Consiglio non ha mai usato parole di sdegno così dure per i 70.000 palestinesi – in gran parte donne e bambini – uccisi in questi mesi, per non parlare dei due milioni e mezzo che sono stati affamati, assetati, umiliati, deportati con inaudita arroganza e violenza dall’esercito israeliano.
Quanto al vicepremier Salvini – che qualche giorno fa in un’intervista a una televisione israeliana ha dato la sua piena solidarietà a Israele, sostenendo che «ha il diritto di difendersi» e che l’indignazione ormai dilagante a livello internazionale è frutto solo di «antisemitismo» –, ha parlato dei manifestanti come di «criminali, teppisti e delinquenti», e ha sfruttato subito le violenze per lanciare un’ulteriore proposta restrittiva sugli scioperi, dopo quelli già introdotti col Decreto sicurezza. «Chiederemo – ha detto in un punto stampa – una cauzione a chi organizza cortei e manifestazioni, in caso di danni pagheranno di tasca loro».
Colpisce che la reazione della grande maggioranza della stampa e delle televisioni, anche non di destra, sia stata in sintonia con quella del Governo e abbia quasi ignorato l’imponente mobilitazione popolare di 80 città italiane riducendola all’incidente – peraltro molto circoscritto – di Milano. Così, il titolo di prima pagina del maggiore quotidiano italiano, il «Corriere della Sera», era l’indomani: «Guerriglia a Milano su Gaza». Su questa linea molti altri.

Lo scollamento della politica dai valori
Eppure, malgrado questi sforzi convergenti per vanificarlo, l’evento del 22 settembre costituisce un segnale importante di novità. Significativo che ad esso abbiano partecipato, numerosissimi, gli studenti, sia universitari che degli istituti secondari. Per chi ha esperienza della scuola, non è strano che le lezioni siano disertate invocando il primo motivo plausibile per «fare vacanza». Strano è, però, che, invece di andarsene a casa o di bighellonare, come purtroppo speso accade in occasione degli «scioperi» studenteschi, questa volta gli alunni nella grande maggioranza abbiano partecipato alle manifestazioni, a volte insieme ai loro professori.
Da molto tempo non si riusciva a offrire ai più giovani un obiettivo credibile per cui investire il loro impegno civile.
Sappiamo tutti a cosa si è ridotta la politica, e non soltanto nel nostro Paese. Anche gli adulti più maturi e temprati, in questo momento storico stentano a vincere lo scoraggiamento di fronte allo scenario internazionale e ai personaggi che recitano in esso la parte di protagonisti. E quanto alla vita politica italiana, è difficile dire se siano meno entusiasmanti i rappresentanti del governo (di cui abbiamo appena misurato la sensibilità democratica) o quelli della opposizione (cronicamente autoreferenziali e divisi, al punto di presentarsi alla votazione sul riarmo con cinque mozioni diverse).
Quel che è certo è che, alle ultime elezioni europee, hanno votato solo il 49,69% degli aventi diritto. Meno della metà. Se si fosse trattato di un referendum, la consultazione non sarebbe stata valida. Era la prima volta che questo accadeva, nella storia della Repubblica. E, anche nelle ultime elezioni politiche del 2022, è andato alle urne solo il 63,08 %. Anche in questo caso si tratta della percentuale più bassa nella storia repubblicana.
La triste verità è che sia la destra che la sinistra, oggi, non rappresentano il Paese reale. E che la politica somiglia sempre di più a un monologo autoreferenziale recitato dalla cosiddetta «classe dirigente» sulla scena di un teatro mezzo vuoto. Una spiegazione di fondo è che in Italia – come in tutto l’Occidente – si è registrato ormai uno svuotamento di quell’ideale democratico che aveva galvanizzato, nel dopoguerra, la grande maggioranza dei cittadini, spingendoli a una partecipazione che a livello elettorale raggiungeva il 90%.
Ma allora c’erano ancora delle idee in cui credere e in nome di cui lottare, discutere, scontrarsi (vi ricordate don Camillo e Peppone?). La dimensione valoriale permeava la politica ed era all’origine della dialettica democratica, che metteva a confronto concezioni diverse, a volte opposte, ma tutte ispirate – fondatamente o meno – a un progetto di bene comune non solo economico, ma integralmente umano. Oggi invece, come ha coraggiosamente denunziato papa Francesco nella Laudato si’, la politica è subordinata all’economia e l’economia, a sua volta, alla finanza.
Col risultato che il successo del nostro Governo è assicurato dalla promozione da parte delle agenzie finanziarie internazionali, anche se, come segnala il recente rapporto Oxfam del gennaio scorso, l’Italia risulta essere sempre più divisa in termini di disuguaglianze economiche.
Nel 2024 la ricchezza dei miliardari italiani è aumentata di 61,1 miliardi di euro, al ritmo di 166 milioni di euro al giorno, e oggi 71 individui detengono 272,5 miliardi di euro, mentre oltre 2,2 milioni di famiglie, per un totale di 5,7 milioni di persone, vivono in condizioni di povertà assoluta.

Una prospettiva nuova
Le persone, soprattutto i giovani, difficilmente possono essere entusiasmate da una politica che funziona così, anche quando appartengono alla fascia privilegiata. E ci sono esperienze traumatiche in grado di risvegliare nelle coscienze il senso del bene e del male, scardinando l’abitale indifferenza a ciò che non riguarda il proprio interesse.
La vicenda di Gaza si sta imponendo – e non solo in Italia – come una di queste esperienze. Le immagini trasmesse ogni giorno dalle reti televisive, i video circolanti su internet, le innumerevoli testimonianze provenienti dalla Striscia, hanno definitivamente fatto crollare la versione del Governo di Tel Aviv, secondo cui, al di là di inevitabili danni collaterali, l’azione dell’Idf avrebbe sempre avuto di mira i terroristi di Hamas, nel pieno rispetto dei diritti umani. Tutti hanno potuto vedere con i loro occhi che la realtà era un’altra.
Nell’inerzia del nostro Governo, la gente si è mossa autonomamente, a di fuori di schemi partitici, per far sentire la propria voce.
Può essere un inizio. Il recupero di una partecipazione dal basso che, senza necessariamente incanalarsi in forme istituzionali, condizioni però le istituzioni e le costringa a cambiare il loro stile. Non è necessario per questo attendere le prossime elezioni politiche.
Ci sono i sondaggi, a cui le forze politiche sono molto attente. Ci sono le prossime elezioni regionali. Occasioni per condizionare i rispettivi partiti di appartenenza – di destra o di sinistra che siano – e riportarli a quel senso della persona umana che dovrebbe caratterizzare una politica degna di questo nome.
L’alternativa, purtroppo, è il progressivo radicalizzarsi dello scontro fra un Governo sempre più orientato a limitare le libertà civili in nome dell’ordine, della stabilità e della sicurezza – valori propri, da sempre, di tutti i regimi autoritari – ed espressioni sfrenate e controproducenti di rifiuto di queste restrizioni.
Col risultato, in realtà, di legittimare agli occhi dell’opinione pubblica ulteriori strette. Già oggi, a sproposito, sono state evocate le Brigate rosse per criminalizzare l’opposizione, accusandola di fomentare l’odio e la violenza per il solo fatto di contestare la linea del Governo.
Solo un ritorno alla partecipazione può fermare questa potenziale spirale, per ora appena abbozzata, in cui autoritarismo e protesta violenta potrebbero finire per alimentarsi a vicenda.
La risposta dei comuni cittadini alla tragedia di Gaza fa sperare che gli italiani si stiano ridestando alla prospettiva etica della politica e possano dare una svolta in questo senso alla nostra democrazia.

settimananews.it/societa/gaza-il-ritorno-della-partecipazione/

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