Donne e Chiesa, di Claudia Divincenzo

Donne e Chiesa, di Claudia Divincenzo

Tutto quello che ho scritto è frutto di domande che mi sono posta, a proposito di situazioni che ho vissuto, che ho visto accadere, informazioni che ho raccolto dall’ambito parrocchiale, riferenti anche a esperienze personali, soprattutto in merito ad eventi e all’organizzazione di questi.

Ammetto di non aver mai riflettuto ampiamente sul rapporto donne-religione, in particolare riguardo al cristianesimo, essendo la religione che pratico, proprio perché la vivo personalmente. Un modo adatto per riflettere su questo rapporto potrebbe essere un vero e corposo confronto tra donne credenti e non. Bisognerebbe mettere da parte ogni pregiudizio e creare spazi in cui dialogare liberamente, così da evidenziare le possibili differenze di pensiero e soprattutto trattare temi spinosi, ad esempio come la sessualità femminile viene vissuta dalle donne e come viene vista dalla società, che sia influenzata dalla Chiesa o meno. Dal momento che non mi è possibile costruire un dialogo simile, mi limito a descrivere e riflettere sulle realtà che ho vissuto in parrocchia.

Sin quando ho iniziato a frequentare il gruppo giovani, ho notato che il gruppo era composto in maggioranza da ragazze, tantoché eravamo in difficoltà in oratori e simili a interpretare personaggi maschili. In molte parrocchie invece è il contrario, oppure femmine e maschi sono presenti in egual misura. Si potrebbe ragionare ugualmente per fasce di età: vi sono età in cui la maggioranza è femminile, altre in cui prevalgono i maschi, e viceversa. Si può desumere che dipenda dai singoli ragazzi, da come siano stati educati dalla famiglia, da come la parrocchia stessa si sia posta nei loro confronti e da altri fattori quali amicizie in comune e rapporti personali sviluppati o già esistenti nella comunità. È interessante quindi analizzare i compiti che vengono affidati alle ragazze e ai ragazzi nelle parrocchie, soprattutto in contesti quali catechismo, oratori, campiscuola, attività ed eventi. La maggior parte delle volte alle ragazze viene affidata la cura e il controllo dei bambini e loro sono le più volenterose e responsabili durante le faccende domestiche dei campiscuola. Ai ragazzi vengono affidate le faccende più tecniche e tecnologiche, a volte si relazionano con i bambini e sono i più restii nello svolgere le faccende domestiche ai campiscuola, perché considerati prettamente femminili. Ovviamente anche qui rientra l’educazione ricevuta, ma non nego che la chiesa può impegnarsi nell’eliminare queste differenze, fatte sulla base di una società che reputa le donne brave con i bambini e nella cura della casa e gli uomini addetti ai lavori tecnici.

Quello che però mi sono domandata ultimamente è che la maggior parte di catechisti, animatori all’oratorio, o in ogni caso persone che sono presenti maggiormente in chiesa sono donne, e la grande parte di loro sono casalinghe o disoccupate. Ora, notando questo legame, si potrebbe ipotizzare che chiesa-matrimonio-lavoro siano tre realtà strettamente connesse perché in tutte l’individuo impiega parte della sua vita, partecipandovi attivamente, e se in qualcuna di queste realtà qualcosa viene a mancare, specialmente nel lavoro e nel matrimonio, ci si rifugia subito nella prima. Non che sia un legame negativo, specialmente per l’uomo, ma per la donna può essere un legame proficuo, come non può esserlo. Data la sua posizione nella società, rischia di essere oppressa in tutti e tre gli ambiti.

Le donne casalinghe, i cui figli sono ormai grandi e autonomi, una volta adempiuto il loro lavoro di madre e moglie (tralasciando per un attimo le varie implicazioni di questo vero e proprio lavoro non retribuito), se non hanno la possibilità di realizzarsi tramite un lavoro o tramite un hobby, una passione qualsiasi da coltivare, non hanno “potere” e non possono determinarsi in nulla, se non nel loro essere madri e mogli. Questo è un campo in cui non c’è competitività, perché nessuno le toglierà in futuro il loro ruolo di moglie e madre. Io penso che loro siano chiuse nella quotidianità e nel futuro sempre uguale che hanno davanti. Come ha scritto Simone de Beauvoir nel Secondo Sesso, “il dramma non consiste nel non assicurare alla donna la felicità promessa – non c’è assicurazione sulla felicità – bensì nel fatto di mutilarla; la consacra alla ripetizione e alla consuetudine” (pag. 475), quindi le donne sono chiuse nel loro destino ripetitivo di madre e moglie senza possibilità di uscita.

Questa competitività persa, questa mancata possibilità di determinarsi e la carenza di autonomia a livello sociale, si colma nella chiesa. La chiesa dona alla donna l’ennesimo lavoro non retribuito che occupa il suo tempo, le viene dato uno scopo in più rispetto alla monotona cura della casa, e soprattutto le dà competitività e possibilità di rivaleggiare con altri, o meglio, altre, basando questo vero e proprio lavoro sulla loro fede e pura volontà. Non che questo sia un aspetto negativo, ma lo diventa quando si approfitta di questa situazione.

La donna, come l’uomo, può vivere liberamente la sua opera di volontariato nella parrocchia (anche se come ho già scritto, la donna è spinta da cause di forza maggiore), ma il problema sorge quando nel rapporto donna-volontariato non entra in gioco più solo la propria fede, e quindi svolgere un compito sulla base del proprio credo o spinti dalla propria volontà e altruismo. La donna, ora che ha la possibilità di compiere materialmente qualcosa che non sia nella sua casa, ora che ha la possibilità di occupare un ruolo sociale che non sia ristretto alla sua sfera famigliare, può autodeterminarsi, e lo fa come un qualunque altro essere umano, rivaleggiando e creando competizione. Come ho potuto notare più volte nella realtà parrocchiale, si tende a rivaleggiare così intensamente, ad assumere il comando così frequentemente, da ledere alla comunità.

La “colpa” di questa volontà di assumere il comando non è di certo attribuibile alla donna (per le ragioni di cui sopra), e sarebbe meglio dire che in realtà non vi è nessuna colpa. È semplicemente un congiungersi di situazioni e di oppressioni che trovano terreno fertile nella chiesa, e la risposta alla domanda: perché proprio la donna, sembra abbastanza banale. È abbastanza ovvio che la maggior parte dei compiti parrocchiali sia svolto da una donna, soprattutto casalinga, perché, una volta svolto il suo compito di madre e moglie, non le rimane null’altro da compiere, solo tempo vuoto da colmare. Come ho detto sopra non ha un lavoro che la soddisfi, con cui occupa il suo tempo, e la parrocchia le dà lavoro, le dà un luogo fertile in cui determinarsi, le dà uno scopo che non sia il solito ambiente famigliare. Ma il problema sorge quando questa opera di volontariato smette di essere volontaria. La donna si affaccia alla chiesa per la sua fede, e grazie a questa si impegna in diversi ruoli, quali catechista, animatrice, quindi si svolge tutto su un piano puramente volontario. Ma una volta all’interno del meccanismo, diventa molto difficile uscirne. Si continua a fare perno sulla sua fede per continuare a farle compiere questi lavori. La donna è più facile da sottomettere (nell’accezione riferita a questi lavori non retribuiti) perché è già sottomessa in altri ambiti della sua vita. La donna è più facile da comandare, perché già comandata da altri. In questo quindi smette di essere in gioco solo la fede, anzi si sfrutta la sua fede per imporle compiti che magari non vuole portare a termine, giocando sul senso di colpa. E accecate dal disegno della loro fede nel loro cuore, di apparire, di mostrare il loro impegno, smettono totalmente di riflettere sulla loro volontà e sul loro consenso. Infatti le viene fornito il modello della Vergine Maria, serva del signore, da seguire, per diventare uguale a lei, pia, vergine obbediente, ideale e immagine che viene sfruttato e abusato.

Le stesse motivazioni, ma inversamente, possono essere la risposta alla domanda: perché questi compiti sono svolti da così pochi uomini? Ho riflettuto su questo è ho notato che la maggior parte degli uomini che viene in parrocchia sono mariti delle donne presenti attivamente e che prendono parte a numerose attività.

Comunque, tralasciando questo processo inverso, è importante analizzare l’ideale di donna e l’immagine di donna che ha la chiesa. Reduce dalle innumerevoli sante che la chiesa annovera, l’immagine classica della donna di chiesa è quella pia, obbediente, severa quando occorre. Una donna a volte derisa, a volte elogiata per il suo lavoro, un lavoro spesso eccessivo. Questa è una delle tante immagini che più propriamente viene associato alla parola e al compito della perpetua. La perpetua è un’immagine che si è andata formando nel tempo anche grazie alla letteratura (si veda I promessi sposi), e anche in questo caso è interessante notare che, in un ambiente totalmente maschile come la chiesa, la perpetua sia donna. Le cause di ciò sono facili da ritrovare nel semplice contesto storico e sociale e nel compito che le donne compivano, ovvero curare la casa e la famiglia, quindi sembra abbastanza ovvio che le donne debbano prendersi cura della “casa della fede”, se così riduttivamente e sgraziatamente vogliamo chiamarla.

La figura della persona pia e vergine infatti si adatta sempre meglio alle donne che agli uomini, ma questa relazione dipende in parte dalla chiesa e dalla religione, la quale rientra in un discorso molto più ampio. In ogni caso, anche qui è curioso individuare le cause e il perché la donna si fa in quattro per compiere il suo lavoro nella parrocchia. Come scritto precedentemente, non vi è niente di negativo, considerando il solo ambito parrocchiale, ma analizzandolo più da lontano, in un contesto sociale e culturale più ampio, sorgono delle domande che necessitano di una risposta.  La donna fa questo perché spinta solo ed esclusivamente dalla sua fede, o perché altre persone spingono e premono, usando la sua fede come scusa per farle compiere quei veri e propri lavori?

Guardando il fenomeno non nell’ottica della singola donna, ma prendendo in considerazione l’intero gruppo di donne che partecipano attivamente alla vita parrocchiale, sorge una domanda utopica. Se un giorno le donne decidessero di astenersi da ogni tipo di lavoro in parrocchia, per un periodo di una settimana, un mese, un anno, cosa succederebbe? La risposta a questa domanda può essere molto semplice oppure molto complessa, considerandone il carattere utopico e la mancanza di dati per sostenerla, ma in ogni caso potrebbe spaventare.

Ed è curioso vedere che un sistema patriarcale come la chiesa, basato sull’autorità maschile, alla base trovi un’innumerevole quantità di donne che portano avanti le attività, o anche una semplice situazione come leggere, cantare, dirigere certe situazioni, organizzare eventi, ecc. Nonostante la piramide maschile della chiesa, alla base si trovano sempre donne. Nonostante i preti, i vescovi, i diaconi e tutte le più importanti cariche ecclesiastiche ricoperte da uomini, le donne possono essere solo suore o catechiste. Nonostante il costante culto per una Trinità prettamente maschile e la Vergine Maria che l’accompagna, ci dimentichiamo che lei esiste e che non è diventata serva del signore perché costretta da un sistema patriarcale e maschilista, ma lo è diventata per pura e semplice volontà, questa sconosciuta che ogni tanto si ricorda di fare capolino nella vita parrocchiale.

Quella parolina che fa paura, quel NO quando qualcuno nel contesto della parrocchia ci chiede di fare qualcosa, che non diciamo mai perché abbiamo troppo timore che ci cadano i fulmini in testa, stile Zeus. Siamo sicuri che le donne, come anche gli uomini a volte, vivano la loro fede nella totale libertà e pura volontà?

 

[Studentessa in Fisica, Barletta]

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