In un ambito politico ancora infestato dal novero delle cose da disprezzare (i partiti, le oligarchie, la casta e quant’altro) può sembrare controcorrente la crescente propensione ad una «domanda di partito», al bisogno cioè di poter fare riferimento non ad avventurose leadership personali, ma ad una macchina organizzativa capace di confrontarsi pubblicamente con idee, proposte, poteri, istituzioni.
Eppure, nella maggioranza di governo come nell’opposizione (a destra e a sinistra, si sarebbe detto una volta) si può intravedere un desiderio o un bisogno di «fare partito». Ed è un fenomeno che circola non solo fra gli inquieti soggetti politici oggi in campo, ma anche in un elettorato stanco del succedersi di offerte politiche troppo personalistiche.
Se si guarda anzitutto al panorama attuale, si vede che esso da anni è pieno di proposte politiche costruite sulle persone: da quella, risultata oggi vincente, dell’attuale Presidente del Consiglio a quelle dei due leader laterali della maggioranza di governo, a quelle dei tre o quattro segmenti di potenziale opposizione. Si corre sempre su un impulso e una decisionalità di tipo individuale, in quanto tutti questi protagonisti non hanno dietro le spalle un vero partito organizzato; si blindano con stretti circuiti di fedeltà personale; e si assestano su coalizioni occasionali e senza intima coesione; con la conseguenza di una spettacolare «ronda del piacere» dove vince la vitalità e/o la furbizia spregiudicata dei soggetti più vitali. Ma con questa vitalità non si va molto lontano e si comincia a sentire il bisogno di avere strutture organizzate capaci di gestire la crescente ambiguità dei problemi sociopolitici e dell’opinione pubblica.
Questo bisogno comunque non cresce solo in chi fa professionalmente politica, va crescendo anche nel magmatico e sfuggente mondo dell’elettorato. Un elettorato che si sta stancando di rincorrere gli appelli generici dei potenziali leader; la loro attrazione mediatica improbabile; la furbizia delle loro strategie personali; le tante onde di consenso che vanno e che subito scompaiono; la moltiplicazione di personaggi carismatici destinati a durare, se sono bravi, per qualche lustro (Berlusconi, Bossi, Grillo), o per pochi anni (Fini, Salvini, Renzi, Zingaretti, ecc.).
L’elettore medio, un po’ cinico e sconsolato, si domanda di fronte a ciò cosa ci dobbiamo aspettare: l’arrivo di un uomo forte; nuovi e più freschi protagonisti della personalizzazione della politica; o la maturazione consolidata di quelli che già ci sono? Oppure la rottura della tendenza in atto e il crescere di una domanda di organizzazioni politiche capaci di fare coscienza e mobilitazione collettiva?
Rispondere affermativamente a questa domanda rischia di scatenare l’inferno in una opinione pubblica che da trent’anni a questa parte si è abituata a disprezzare i partiti e le loro macchine organizzative («meglio i partiti leggeri che d’apparato») e a non sopportare i processi decisionali complessi (a favore di procedure facili e labili, magari le mitiche primarie). Sono passati trent’anni da Tangentopoli, che spazzò via il valore stesso della «forma partito»: trent’anni non bastano per un ripensamento sull’obbligata dimensione organizzata del fare politica? Dobbiamo aspettare ancora perché il pendolo torni indietro verso un approccio più realista della catarsi dei primi anni ’90? Forse è ragionevole non forzare la mano, ma cominciamo intanto a prendere coscienza del fatto che la politica senza organizzazione diventa per alcuni un’esaltante avventura, per il sistema un’ambigua palude populista.