C’è un paradosso scientifico che dovrebbe farci riflettere: parliamo di homo sapiens, eppure il primo grande ritrovamento che ha rivoluzionato la paleoantropologia – Lucy, scoperta in Etiopia – è di sesso femminile. È il sintomo di un problema profondo che attraversa millenni di pensiero, cultura e spiritualità.
Antropologhe coraggiose come Sally Slocum, Adrienne Zihlman e Nancy Tanner hanno dovuto attendere gli anni Settanta e Ottanta per poter finalmente denunciare il fatto che l’intera narrazione evolutiva era costruita su assunzioni androcentriche. Il contributo femminile alla storia dell’evoluzione non era semplicemente sottovalutato – era sistematicamente cancellato.
E lo stesso misconoscimento attraversa la scienza, la filosofia, quasi tutte le discipline del sapere umano. Ciò che per secoli è passato come “universalismo” era in realtà l’assolutizzazione di un unico punto di vista: quello maschile. Questo approccio ha certamente prodotto grandi scoperte, progressi straordinari, un’accelerazione dello sviluppo. Ma ha anche generato quella che Paul Valéry chiamava “la crisi della civiltà”: relegando sullo sfondo tutte le dimensioni non strumentali, non estrattive, non acquisitive, abbiamo mutilato l’essere umano stesso, impedendogli uno sviluppo armonico.
L’individuo della modernità è concepito come maschio. La sua postura esistenziale è strumentale ed estrattiva: prende, usa, accumula, domina. Preservare la relazione con il femminile nella reciprocità è oggi più che mai la chiave per salvaguardare quella complessità e quella tensione che caratterizza l’essere umano e lo spinge ad aprirsi oltre se stesso: al mondo, agli altri, al passato, al futuro.
La logica tecnoscientifica guidata dal capitale spinge per separare tutto ciò che nella vita umana è collegato e interdipendente, compresa la relazione antropologicamente più originaria e, per certi versi, più sacra: quella del legame materno. La tecnica slega e ricompone: è l’atteggiamento tipico dell’astrazione, di quel falso universalismo che è in realtà un maschile mascherato.
La dimensione della concretezza da un lato, e dell’apertura al mistero, alla meraviglia, allo spirito dall’altro, costituiscono elementi di una tensione vitale. Perderla significa pervertire le caratteristiche stesse dell’umano.
Esiste una saggezza femminile, con buona pace di chi vuole decostruire radicalmente qualunque dimensione fisica e simbolica. Non si tratta di essenzialismo, ma di riconoscere un polo di tensione positiva che permette alle capacità, alle qualità, alle dimensioni simboliche di co-individuarsi reciprocamente, invece di contrapporsi, emularsi in dinamiche di rivalità mimetica, scontrarsi in logiche belligeranti e mortifere.
Maschile e femminile non sono principi contrapposti, né tanto meno sostanze ipostatizzate in soggetti che incarnano questa scissione. Sono piuttosto due poli in tensione che si costituiscono nella loro reciprocità, nel rimandare strutturalmente l’uno all’altro.
Possiamo definirli, con Ivan Illich, come due archetipi che incorporano il “genere vernacolare”: quel deposito di simboli, pratiche, senso comune, saggezza popolare che si trasmette nel legame tra le generazioni. Non sono incarnati in soggetti distinti secondo una prospettiva sostanzialista, ma non sono nemmeno supermercati di attributi da indossare e dismettere a piacimento, come vorrebbero le teorie costruzioniste radicali.
L’aver privilegiato la scissione e la contrapposizione ha costituito un grave impedimento allo sviluppo armonico della civiltà e ha favorito l’affermarsi di un individualismo radicale.
La femina sapiens ci ricorda una verità fondamentale: l’essere umano, prima di costituirsi come individuo, esiste in un rapporto fusionale di indifferenziazione. Solo grazie a questo può venire al mondo. In principio è la relazione, ed è grazie a essa che diventiamo individui. Questa non è un’affermazione astratta o ideologica: è incisa nella nostra stessa carne. Basta guardarsi l’ombelico per ricordarlo. È inscritta nel cammino della filogenesi.
La femina sapiens ci insegna che ogni essere è unico, singolare, irripetibile. Che l’individualismo che prescinde dal legame è astratto, ideologico, distruttivo. Che legame e libertà non sono opposti, ma in feconda tensione: solo una libertà che non dimentica il rapporto con ciò che viene prima, ciò che sta intorno, ciò che verrà dopo è una libertà non distruttiva bensì generativa.
La femmina è sapiens anche in senso teologico, come testimoniano le Scritture. Nell’Antico Testamento, una serie di donne si presentano come “madri di grazia”. Sono madri che danno alla luce un figlio quando ormai parevano sterili, superando la legge di natura e testimoniando la presenza di Dio in loro. La grazia è forza di trasformazione, di emancipazione, di rottura delle convenzioni e dei formalismi che fa irruzione nella storia soprattutto attraverso le donne e la loro corporeità intrisa di spirito.
La Sapienza evangelica non sarebbe tale senza il contributo delle donne. Maria non parla di Dio ma parla con Dio e lo accoglie in sé. Come scrive Massimo Cacciari, “concepisce nell’ascolto”. Fidandosi e affidandosi: un movimento che consente di spingersi audacemente oltre ogni garanzia e convenzione.
L’emorroissa, la Maddalena e altre mostrano che linguaggio del corpo è connaturato all’incarnazione, e che la legge dell’amore supera l’amore della legge.
Sbilanciarsi oltre sé, fare spazio all’altro, allestire quel vuoto accogliente senza il quale la vita non può avere inizio: queste sono le posture esistenziali delle donne nelle scritture.
Oggi, in tempi per tanti versi bui, come ha scritto recentemente Luca Bagetto, un’esperienza redentiva del nichilismo contemporaneo viene dal femminile. Non come alternativa al maschile, non come sua negazione, ma come tensione salvifica che può restituirci alla complessità del reale, alla relazionalità costitutiva, alla reciprocità generativa.
La femina sapiens non è una rivendicazione identitaria: è il riconoscimento di una verità antropologica, scientifica, filosofica e teologica che abbiamo troppo a lungo rimosso. È il recupero di quella metà della sapienza umana senza la quale ogni discorso sull’uomo resta monco, astratto, pericolosamente incompiuto.
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