Liberazione dal giogo coloniale da una parte, liberazione dal pantano del sottosviluppo dall’altra. Attorno a questi temi ruotavano le relazioni politiche e la “diplomazia parallela” tra Italia e Tunisia a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Nella memoria dell’Italia repubblicana, restavano indelebili il ricordo delle macerie della guerra e le “forche caudine” della conferenza di pace, ragioni profonde alla base del desiderio di riscatto, ripresa economica e recupero del prestigio internazionale nutrito da un’intera nazione. Nel mentre, al di là del Mediterraneo, un piccolo Paese, povero di risorse naturali e a lungo conteso dalle potenze europee, anelava all’indipendenza, che si concretò solo nel marzo del 1956. Nelle parole di Enrico Mattei, i destini nazionali italiano e tunisino erano allora accomunati dalla lotta contro un nemico comune: la geografia della fame.
La lezione cartaginese non mentiva. Prima ancora che prendesse forma un’entità statuale, la scarsità di materie prime e la posizione geografica privilegiata, di porta tra Mediterraneo occidentale e orientale e pivot tra Europa, Africa e Levante, avevano portato la Tunisia a scommettere nella propria capacità di intercettare e trarre vantaggio dal commercio marittimo. Così aveva prosperato la Reggenza di Tunisi fin dal XVI secolo, ma, con l’indipendenza dal giogo francese, iniziava una nuova pagina della storia tunisina. Nel testo Decolonizzazione e dignità, preparato nel maggio 1960 in vista della firma di un accordo economico tra Roma e Tunisi, ma mai pronunciato, il manager di Stato a capo dell’Eni si opponeva con toni netti alla narrazione sulla rassegnazione all’idea che Tunisi, al pari dell’Italia, fosse condannata a essere povera.
Alla sua generazione era stato raccontato che da quella miseria, dovuta alla scarsità di materie prime e risorse energetiche dell’Italia, non si poteva sfuggire e che gli italiani, soprattutto quelli del Meridione, erano destinati a emigrare, poiché sprovvisti delle capacità per portare l’economia del Paese a un balzo in avanti in termini di benessere sociale e prosperità. Mattei si batté contro quel sentimento diffuso di fatalità e rassegnazione, impegnandosi ad assicurare all’Italia “energia abbondante e a basso costo”. E nel perseguimento della rinascita nazionale e della liberazione dalla “trappola del sottosviluppo”, che attanagliava tanto l’Italia centro-meridionale quanto la Tunisia, trovò un obiettivo di comune interesse con la classe dirigente maghrebina.
Habib Bourghiba era figlio del fermento politico e culturale che si manifestò in Tunisia agli inizi del Novecento, prima con il movimento riformista dei “Giovani Tunisini” (1907) e, in seguito, con il partito nazionalista Dustur, il cui nome alludeva alla Carta costituzionale tunisina del 1861, la prima del mondo arabo-musulmano e perciò motivo di orgoglio nazionale e simbolo dell’identità tunisina. La Tunisia era inglobata nella sfera di influenza francese fin dal maggio 1881, quando fu firmato il Trattato del Bardo, un autentico schiaffo alle ambizioni del Regno d’Italia, per quanto fossero state espresse apertamente al cancelliere Bismark dall’allora ministro degli Esteri italiano Luigi Corti in occasione del Congresso di Berlino (1878). Un boccone indigesto per la “politica delle mani nette” del giovane Stato italiano, che tentava di recuperare terreno nello scramble for Africa e, dopo quello smacco, non esitò più a voltare le spalle a Parigi e schierarsi dalla parte della Triplice Alleanza.
Nonostante i francesi avessero posto la Tunisia sotto un protettorato, guardandosi bene dall’annetterla al pari dell’Algeria, Tunisi sarebbe rimasta centrale nella definizione delle sfere di influenza e degli equilibri di potenza sul Mediterraneo. Non è infatti da sottovalutare l’interesse che il governo di Roma aveva nel tutelare le comunità italiane insediate in numero cospicuo sul territorio tunisino fin dagli inizi del XIX secolo. E, per giunta, gli italiani in Tunisia sarebbero stati più numerosi dei coloni francesi per buona parte della storia del protettorato, elemento che avrebbe imposto al governo di Parigi di usare cautela nelle decisioni di politica estera e coloniale che riguardavano Tunisi. Con la Convenzione di Marna del 1883, inoltre, fece la sua comparsa nella storia tunisina il problema (oggi tristemente attuale) del debito pubblico, che fu preso in carico dallo Stato francese.
Mentre l’amministrazione francese introduceva importanti ammodernamenti nelle infrastrutture (strade e ferrovie), nel sistema sanitario e giudiziario tunisino, per tutto il periodo dell’occupazione straniera la Tunisia fu attraversata da tensioni costanti tra resistenze alle spinte riformatrici e slanci verso una modernizzazione più decisa. Insurrezioni popolari erano scoppiate già nella seconda metà del XIX secolo in risposta alle bid’a, ovvero “innovazioni” politiche volute dal bey di Tunisi. Le tribù del Sud opposero resistenza all’instaurazione del protettorato francese al punto da cercare rifugio presso il Sultano di Costantinopoli. Gli ‘ulama, ovvero i dotti musulmani, si cimentarono in una campagna a bassa intensità per rallentare i processi di laicizzazione dell’ordinamento giuridico e occidentalizzazione del sistema educativo.
Sul sottile crinale tra la conservazione dell’identità nazionale, radicata nella vecchia Costituzione tunisina, e il ridimensionamento del potere delle autorità religiose, iniziò il proprio cammino il partito Dustur, che, nel 1934, divenne Neo-Dustur, rifondato da Bourghiba. Abile nell’affermarsi come capo indiscusso del partito, nell’intrattenere buoni rapporti con l’Union Générale Tunisienne du Travail (che gli garantì un legame privilegiato con le masse tunisine) e nel presentarsi come interlocutore dei francesi in vista della transizione post-coloniale, Bourghiba fu uno dei principali architetti della Tunisia repubblicana di nuova indipendenza, un Paese indirizzato verso un cammino di laicizzazione e modernizzazione unico nel mondo mediorientale. Ma il presidente tunisino avviò anche una tradizione duratura di personalizzazione e accentramento del potere sul piano politico, mediatico e culturale, tanto che a un giornalista che, intervistandolo, gli chiese del “sistema tunisino” Bourghiba rispose: «Il sistema? Quale sistema? Io sono il sistema.» (M. Willis, Politics and Power in the Maghreb, Columbia University Press, 2012, p. 51).
La Tunisia post-coloniale, malgrado le simpatie malcelate per il modello socialista della vicina Algeria e gli ammiccamenti con il fronte dei non allineati, si schierò progressivamente a favore del blocco occidentale, giocando, per di più, un ruolo di spicco all’interno della Lega Araba. Nella prima fase “terzomondista” della politica estera tunisina, quasi naturale fu l’avvicinamento tra Roma e Tunisi, dato che, negli anni Cinquanta e Sessanta, non era solo Enrico Mattei a scorgere una finestra di opportunità irripetibile per la vocazione mediterranea dell’Italia, bensì anche altre voci autorevoli della galassia democristiana, tra cui il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi.
Era sull’immagine di “più piccola tra le grandi potenze”, uscita umiliata dalla Seconda Guerra Mondiale e privata dei suoi possedimenti coloniali, che la politica estera italiana degli anni Cinquanta voleva puntare, presentandosi ai Paesi arabi del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale come ponte tra Paesi occidentali e Paesi afroasiatici. Non a caso, quando la delegazione italiana all’Assemblea generale delle Nazioni Unite decise di astenersi dal votare a favore della proposta indiana volta alla risoluzione della crisi di Suez, Giovanni Gronchi espresse tutta la sua disapprovazione, rimarcando la sua visione di una politica estera italiana coraggiosa: la proiezione italiana sull’estero doveva fungere da traino per “un’Europa che agganci[asse], non allontan[asse] gli afro-asiatici”.
Attore mai inerte nel contesto del Maghreb, la Tunisia non finì ai margini della scena politica internazionale nei decenni successivi alla sua indipendenza, neppure dopo il tramonto del “regno di Bourghiba” (1957-1987). Con l’apertura dell’Egitto a una normalizzazione dei rapporti con Israele a Camp David, Tunisi divenne il quartier generale della Lega Araba e, dopo l’operazione militare israeliana in Libano del 1982, si offrì anche di ospitare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina fino al 1994. Durante la presidenza Ben Ali, mentre il Paese scivolava verso una opprimente deriva autoritaria, l’economia prosperava, crescendo anche a un ritmo del 5% annuo. È un dato da tenere a mente per comprendere la crescente sfiducia, oggi dilagante, verso le promesse della democrazia à l’occidentale, poiché, a distanza di più di dieci anni dallo scoppio delle “Primavere arabe”, i giovani tunisini lamentano il fatto che, al tempo di Ben Ali, le libertà erano ridotte al minimo, ma almeno il livello di benessere era generalmente migliore. Una chiave di lettura suggerita anche dall’ex primo ministro tunisino Youssef Chahed, intervenuto in un una conferenza tenutasi all’ISPI lo scorso 18 aprile.
Mentre il governo di Tunisi ha ingaggiato, in tempi recenti, un braccio di ferro con il Fondo Monetario Internazionale e l’Unione Europea sugli aiuti economici necessari all’economia nazionale per far fronte a un grave squilibrio della bilancia dei pagamenti, il governo italiano è chiamato a svolgere un ruolo di primo piano, che sia di mediazione tra la Tunisia e le suddette organizzazioni internazionali e di accompagnamento del Paese verso un percorso di crescita sostenibile. A dispetto delle sue dimensioni, lo Stato tunisino è un attore-chiave dell’estero vicino italiano, non solo come partner economico e commerciale, ma anche come Paese di origine e di transito dei flussi migratori diretti verso l’Italia, snodo cruciale per il trasporto del gas proveniente dall’Algeria (che nel 2022 pesava per il 24,4% delle forniture di gas verso l’Italia) e scalo commerciale di crescente rilevanza, soprattutto a seguito del Memorandum d’intesa del 2018 tra Tunisia e Cina.
In un contesto attuale segnato da squilibri e asimmetrie politiche, economiche e culturali, un piano Mattei che sia all’altezza delle aspettative non può non rifarsi alle parole del capitano d’industria in Decolonizzazione e dignità sulla definizione di rapporti di parità formale tra Paesi del Nord e Sud del mondo, sull’idea di co-gestione delle tecnologie e dei processi produttivi e sulla formazione di nuove élite politiche e imprenditoriali. Perché il grido di karama (dignità) delle “Primavere” trovi risposta, occorre che Paesi come la Tunisia non siano più «ricevitori passivi di un’iniziativa straniera, ma soggetti, non più oggetti, di economia».
https://www.dissipatio.it/la-geografia-della-fame/
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