Innanzitutto c’è Israele. Un paese piccolo, appena due volte più grande del minuscolo Libano, ma che divora con aerei e droni i cieli dell’intera regione al punto da potersi permettere, nel giro di poche settimane, di bombardare quattro capitali – Beirut, Damasco, Teheran e Sanaa – senza pericolo. Più potente di tutti i suoi avversari messi insieme, domina e schiaccia tutto senza essere in grado di regnare. Sentiamo dire, sempre più spesso, che “senza gli Stati Uniti non farebbe nulla”, che “si sta scavando la fossa da solo”, che “la sua fine è vicina” e che “non è mai stato così isolato”. Forse è vero. Ma dubitare è lecito. E anche constatare che lo sentiamo dire da decenni e che più passa il tempo, più si allarga il divario tra il potere di Israele e quello degli altri paesi della regione.
Quindi sì, l’opinione pubblica occidentale e perfino quella statunitense gli sono sempre più ostili e il sostegno incondizionato di cui gode potrebbe finire per erodersi. Sì, la società israeliana è profondamente malata e potrebbe finire per implodere. Ma sono solo speculazioni, mentre per ora s’impone una realtà molto più brutale a cui non sappiamo come rispondere.
Da quasi due anni Israele sta ridefinendo i confini del Medio Oriente a colpi di bombe. Visto che è il più forte e visto che il suo alleato è il più forte dei forti, crede di potersi permettere tutto e in effetti, bisogna ammetterlo, gli è permesso tutto o quasi tutto. Quindi bombarda, elimina, minaccia, affama, umilia, occupa, ridisegna, cancella e annienta. È diventato non il gendarme, ma il caid, il boss della regione. Non cerca di far rispettare la legge, ma vuole imporre la sua a tutti gli altri. La scelta è tra sottomissione o caos. Tra capitolare o sparire.
E fosse solo questo. Fosse solo la storia di uno stato più potente dei suoi vicini e determinato ad approfittarne. Fosse solo la volontà di Benjamin Netanyahu di distruggere l’asse iraniano – quell’asse che ha causato tanta sventura alla regione – e la facilità con cui finora ci è riuscito. Fosse solo questo, Israele sarebbe un problema tra gli altri nella regione e non il problema principale.
L’anomalia israeliana
Ma ci sono tante altre cose. C’è Gaza. C’è un’infamia per cui le parole non hanno più alcun senso né valore. C’è una politica di pulizia etnica e di sterminio che sempre di più giuristi e storici definiscono genocidio. Ci sono cinquecentomila persone che rischiano di morire di fame. Ci sono più di duecento giornalisti uccisi affinché nessuno possa testimoniare l’orrore che si sta consumando nell’enclave. C’è un ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, che va nella cella del più grande prigioniero politico palestinese, Marwan Barghouti, per sputargli in faccia tutto il suo odio, come se la vittoria, per essere assaporata, richiedesse la più completa umiliazione.
C’è un ex capo dei servizi segreti militari israeliani, Aharon Haliva, che afferma, con la certezza di un esperto in materia, che il bilancio delle vittime a Gaza “è necessario” e che “hanno bisogno di una Nakba ogni tanto”. C’è un popolo cancellato, a Gaza come in Cisgiordania, scacciato come se fosse bestiame, negoziando il trasferimento in diversi paesi africani. C’è l’ultimo progetto di colonizzazione, il famoso E1, che divide in due la Cisgiordania per seppellire definitivamente lo stato palestinese. Perché bisogna seppellire la speranza, non basta che sia morta. Bisogna accelerare la storia, prima di congelarla. Bisogna che la sconfitta sia irreversibile. Che nessuno pensi più di difendere, anche solo a parole e senza la minima convinzione, lo stato palestinese.
E, come se tutto questo non bastasse, c’è un primo ministro che si dichiara favorevole al “Grande Israele”. C’è un colonialismo messianico che vuole impadronirsi di tutta la “Giudea-Samaria” e cacciare gli abitanti, che vuole spopolare Gaza e occuparla nuovamente e che punta già al Libano meridionale, a una parte della Siria e alla Giordania.
Allora ci dicono che tutta la colpa è di Benjamin Netanyahu e del suo governo, il più a destra nella storia dello stato ebraico. Ci dicono che, nonostante tutto, Israele rimane “l’unica democrazia del Medio Oriente” e che la sua popolazione è ancora sotto shock per gli attentati del 7 ottobre 2023, che le parole abiette di Bezalel Smotrich o Ben Gvir non rappresentano il popolo e che questo si sbarazzerà del capo del governo alla prima occasione. E ce lo dicono come se Netanyahu non fosse stato nominato primo ministro più di una volta (indipendentemente dai difetti del sistema elettorale), come se non fosse il leader che ha governato più a lungo Israele e, soprattutto, come se non esistessero i sondaggi che mostrano il sostegno della stragrande maggioranza degli israeliani alla sua politica per cacciare i palestinesi da Gaza.
Abbiamo sempre pensato che considerare Israele un’eccezione, nel bene e nel male, fosse uno dei grandi mali di questo conflitto. Che quando un israeliano uccide un arabo non è né peggio né meno peggio di quando lo fa un arabo. Ma come si fa oggi a non cadere in una sorta di eccezionalismo? In cosa la situazione non è eccezionale? Certo, altri paesi hanno già fatto o stanno facendo ciò che fa Israele. Ma nessuno può farlo ricevendo un sostegno simile da tutti quelli che pretendono di incarnare un ordine basato su regole e valori. Quale altro paese al mondo può affamare un popolo, radere al suolo città, cacciare intere popolazioni senza essere messo al bando dalla comunità internazionale? Quale altro paese può insultare chiunque osi negargli carta bianca per i suoi progetti di genocidio, fosse anche uno dei suoi principali alleati?
L’antisemitismo è un abominio. È riemerso con forza dalle viscere della storia. Bisogna combatterlo senza distinzioni, anche tra quelli che lo alimentano fingendo di difendere la causa palestinese. Ma come si fa a non vedere che la politica israeliana è oggi il principale motore della sua recrudescenza? Come si fa a non vedere che Israele sta accendendo un fuoco nelle menti di tutta la regione e oltre?
Allora ci dicono che è la guerra e che la guerra è così. Ci dicono perfino che dovremmo ringraziare Benjamin Netanyahu di averci “liberato” dall’asse iraniano. Che senza di lui Hezbollah dominerebbe ancora il Libano, Bashar al Assad sarebbe ancora a Damasco e la guida suprema dell’Iran Ali Khamenei sarebbe ancora il padrone della regione. Ma anche se non è del tutto falso, anche se la speranza può nascere dal peggio, c’è davvero qualcuno oggi disposto a credere che questo Israele, per come è e per come si comporta, possa dare vita a un’era più pacifica, più stabile o più prospera? C’è davvero qualcuno ancora convinto che Gaza sia solo una parentesi?
Un regime odioso
E poi c’è l’Iran. C’è un immenso paese con una storia plurimillenaria che la Repubblica islamica ha rapito. C’è un regime odioso, detestato da gran parte della sua popolazione, così irrequieto e allo stesso tempo così resiliente, che non ha altro da offrire se non un cocktail di propaganda e repressione, ma che si può accontentare di questo, in assenza di interventi esterni, per mantenersi in vita ancora per anni, se non per decenni. C’è un asse che ci ha fatto credere – e ci abbiamo creduto – di dominare il Medio Oriente perché poteva paralizzare paesi interi, uccidere gli oppositori, terrorizzare le popolazioni e massacrare i siriani.
Ora non è che l’ombra di se stesso. È in ginocchio. Ma finché respira, può essere letale. Non per Israele. Ma per noi. Perché, anche se perde ancora e ancora, non si darà mai per vinto. Peggio: perché pensa di avere il tempo dalla sua parte; perché ogni schiaffo che riceve rafforza la determinazione e il culto del martirio; perché la sua lettura degli eventi, al di là del pragmatismo di facciata e di una formidabile astuzia, è profondamente ideologica; crede ancora nella vittoria. Ha lanciato missili su Israele, gli ha resistito e ha resistito e agli Stati Uniti, ha fatto marcia indietro su tutto ma senza rinunciare a nulla e non ha abbandonato le ambizioni nucleari.
E sarebbe sbagliato pensare che possa rinunciare a tutto quello che sta alla base della sua ideologia: l’odio per Israele e gli Stati Uniti, la strumentalizzazione della causa palestinese, il senso di superiorità nei confronti degli arabi, la volontà di esportare la propria rivoluzione e, soprattutto, di essere la punta di diamante della rivincita sciita contro i sunniti.
Ai suoi occhi, ogni concessione è un’ammissione di debolezza che potrebbe portare alla rovina. Quindi, finché la Repubblica islamica sarà ciò che è e finché l’asse respirerà, non ci sarà pace nella regione. Ecco un’altra delle nostre sfortune. Il rovesciamento della Repubblica islamica e la scomparsa dell’asse sono una necessità. Ma potrebbe costare caro. Per non parlare delle conseguenze: chi potrà venirne a capo?
Si ripete continuamente che il cambiamento deve venire dall’interno e che è il popolo a dover rovesciare il regime. Ma cosa può fare il popolo di fronte a un regime pesantemente armato e pronto a tutto pur di mantenere il potere? A meno di un cambiamento radicale, la soluzione potrà venire solo dall’esterno. Bombe israeliane e americane? Ecco il nostro dramma. Gli unici che oggi possono e, potenzialmente, vogliono rovesciare il regime e distruggere l’asse sono i principali artefici del caos nella regione. Sono l’antitesi della pace. Non possono essere la cura di un male che contribuiscono in modo così determinante a diffondere.
Verità distorta
E poi c’è Hezbollah. E questo complica ancora di più le cose per noi libanesi. Perché i suoi militanti, i suoi sostenitori, i suoi simpatizzanti sono libanesi. Perché hanno perso la casa, i cari, i quartieri, il capo, e tutto ciò che gli resta, ai loro occhi, è la dignità. Perché Israele continua a bombardare e occupare il Libano nonostante il cessate il fuoco. Perché c’è tutto ciò che Israele ha fatto in passato e tutto ciò che potrebbe ancora fare in futuro. Perché il Libano è ormai di fatto sotto la tutela di Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita.
Sì, Hezbollah non ha completamente torto. Ma distorce i fatti per adattarli alla sua versione della realtà. Non spiega perché ha contro la maggioranza dei libanesi, perché tutta la regione lo detesta, perché ha usato le armi contro gli stessi libanesi e contro i siriani, perché ha scatenato due guerre assurde contro Israele che il Libano ha pagato a caro prezzo, perché è agli ordini di Teheran e, soprattutto, perché insulta e minaccia chiunque gli chieda di rispettare le stesse regole di tutti gli altri.
E allora dice che Israele è una minaccia, dice che la sovranità del Libano deve essere rispettata e dice, cosa ancora più importante, che non bisogna assolutamente emarginare o provocare la sua comunità. E su ciascuno di questi punti, gli si può dare ragione.
Ma non dice che le sue armi non proteggono il Libano, al contrario, lo rendono un bersaglio; che ha calpestato i piedi a tutti; che ha calpestato la sovranità libanese più di qualsiasi altro partito e che è Hezbollah, e nessun altro, a minacciare ogni due per tre di scatenare una guerra civile se i suoi desideri non vengono esauditi. Vuole essere allo stesso tempo il martire e il Leviatano. Chi soffre e chi regna. E non gli importa che il resto del paese non sopporti più la sua arroganza e la sua presunzione suicida. Sacrificherà fino all’ultimo dei suoi uomini per conservare le armi. E accuserà il mondo intero di voler farla finita con gli sciiti.
Odia Israele, ma gli somiglia molto più di quanto creda. Come Israele, capisce solo il linguaggio della forza. E pensa di realizzare il progetto di Dio. E trascina la sua comunità in una guerra senza fine contro il resto del mondo.
Rimanere lucidi
Infine c’è la Siria. La Siria di cui Hezbollah ha tanta paura. Paura che gli uomini di Ahmad al Sharaa un giorno attraversino il confine poroso che separa i due paesi per vendicarsi di tutte le atrocità commesse da Hezbollah nel loro territorio. All’inizio c’era speranza. La caduta di uno dei regimi più odiosi del mondo. Di un clan che ha bruciato il suo stesso paese per non scomparire.
È stato uno dei giorni più belli della nostra vita. Ma bisognava rimanere lucidi. Capire che nulla sarebbe stato facile. Che la Siria era stata così martoriata che ci sarebbe voluto tempo, molto tempo, per rimarginare le ferite.
Ahmad al Sharaa può essere la sua salvezza? O è un nuovo incubo? Non è Assad e, con buona pace di chi lo critica, sembra aver davvero voltato le spalle al jihadismo. Ha la stragrande maggioranza della popolazione dalla sua parte. E ha il sostegno degli Stati Uniti, della Turchia e dell’Arabia Saudita. Deve governare un paese in rovina, dove il desiderio di vendetta è ovunque e dove tutti sono armati. E deve ricostruire uno stato, riaffermare la sua autorità ovunque, anche sulle milizie curde, druse o alauite.
Detto questo, ricordato che la Siria di oggi è per ora meno terrificante della precedente, che deve affrontare sfide titaniche, che bisogna dare tempo al tempo e che Sharaa è contemporaneamente il nuovo carnefice e l’unica speranza, non si può fingere di non essere preoccupati. Anzi: molto preoccupati. Perché anche quando li contestualizziamo – e bisogna farlo – gli eventi che hanno sprofondato nel lutto la costa e il sud della Siria sono spaventosi. Anche se il regime non è l’unico responsabile, anche se questa eredità di odio è soprattutto quella di Assad, sono stati proprio gli uomini del nuovo regime a partecipare ai massacri degli alauiti e dei drusi, sull’onda di discorsi ultra-confessionali. Sharaa cambierà la Siria, ma è soprattutto la Siria che può ancora cambiare Sharaa. Più il paese apparirà ingovernabile, più lui sarà isolato e più diventerà radicale.
Non c’è dubbio che non sia né un democratico né un chierichetto. È un temibile animale politico che sarebbe davvero sbagliato sottovalutare. Alcuni sostengono che sotto di lui la Siria sarà autoritaria, liberale sul piano economico e islamista sul piano sociale. Per il momento non ne sappiamo molto. Sappiamo che tutto può finire da un giorno all’altro perché la situazione è molto fragile. Sappiamo che nel suo campo o in quello che era il suo campo i militanti più radicali hanno già tentato più volte di ucciderlo e deve tenerne conto. Sappiamo che se fossimo cristiani, alauiti, drusi o curdi in Siria in questo momento, avremmo paura. E questa paura, in questa regione ancora più che altrove, è spesso fonte di terribile violenza.
Si capisce quindi che i curdi non vogliano consegnare le armi, che i drusi si rivolgano a Israele e che gli alauiti preghino affinché il regime cada il più presto possibile. Ma cosa significa questo per la Siria? Come costruire uno stato, come creare una nazione in queste condizioni?
Non basta la speranza
Cosa significa questo per la regione? E per il Libano? I libanesi avranno finalmente un rapporto alla pari con il loro finto-fratello vicino? E se Damasco firmasse un accordo con Israele – come tutto lascia supporre – cosa significherebbe questo per il Libano?
Dicono che il “nuovo Medio Oriente” sta nascendo. Che sarà più stabile e più prospero dei precedenti perché è stato creato dall’asse israelo-statunitense, dalla potenza del dollaro e dalla tecnologia militare.
Forse sul piano geopolitico lo sarà davvero, o in modo illusorio, a breve e medio termine. Forse i palestinesi saranno (come sempre) i grandi perdenti della storia, ma il resto della regione andrà meglio.
A volte ci dicono che siamo troppo pessimisti e forse è vero. Forse all’inizio degli anni quaranta nemmeno gli europei più ottimisti potevano immaginare come sarebbe stata l’Europa, almeno quella occidentale, appena dieci anni dopo. Forse i pianeti si allineeranno, il regime iraniano cadrà, nascerà uno stato palestinese, fiorirà un ordine regionale basato su un minimo di giustizia ed equilibrio e le società di questa regione riusciranno finalmente a reinventare un modello sociale che mantenga una certa forma di libertà e pluralità più di un secolo dopo il crollo dell’Impero ottomano.
Forse allora tutti gli altri regimi autoritari – quelli di cui non abbiamo parlato, perché non potevamo parlare di tutto – saranno costretti ad adattarsi, ci sarà un terreno meno fertile per i movimenti islamisti, e i cervelli della regione saranno meno tentati di andarsene. Forse questo “nuovo Medio Oriente” di cui si parla a intervalli regolari non è destinato a rimanere solo un mito. Forse il fatalismo, una delle malattie che a volte ci affligge in questa regione, è solo frutto di stupidità e superstizione.
Sì, potremmo essere qualcos’altro. Ma per farlo dovremmo essere governati da altre persone. Dovremmo essere influenzati da altre idee.
E dove sono? Dove sono quelli che potranno pensare e realizzare il Medio Oriente di domani, portare la pace nella terra promessa, la rivoluzione in Iran, l’unione tra i paesi della regione e la riconciliazione all’interno delle società che la compongono? Esistono? Sono già nati? Prenderanno un giorno il potere?
Certo che vorremmo sperare. Ma nonostante tutta la sua forza, da sola la speranza non basta. E non possiamo fare a meno di constatare che il resto del mondo, nell’attesa, somiglia sempre più al Medio Oriente.
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