C’era una volta il sogno, di Andrea Monda

Qual era il mio immaginario quando ero adolescente? Non è facile definirlo. Anche perché, come scrive Chesterton nell’Autobiografia «L’adolescenza è la cosa più complessa e la più incomprensibile che vi sia […] un uomo non può mai capire completamente un ragazzo sebbene sia stato pure lui un ragazzo». Sforzando la memoria provo quindi a mettere a fuoco qualche pensiero, inevitabilmente confuso e sporadico. La mia lente peraltro sarà squisitamente politica, a causa della passione per questa dimensione, passione per altro condivisa con molti in quegli anni tra i ’60 e i ’90 (per “immaginario” ritengo che si debba parlare di qualcosa di condiviso).
Dunque, io nasco nel 1966 e due anni dopo arriva il ‘68 che con immaginario e immaginazione ha molto a che fare. Il ’68 è anche l’anno dell’uccisione di Bob Kennedy e Martin Luther King e del suo I have a dream. La mia è l’ultima generazione che ha creduto nel sogno della politica e nella forza della comunità, forse. Mi sto aggrappando strenuamente da anni a quel “forse”.
La dimensione comunitaria e politica, il tema dell’appartenenza e dell’identità, si intrecciano sin dagli anni ‘50 con la dimensione della comunicazione e dei mass-media ed in particolare con l’oggetto più potente che arriva in quegli anni e molto ha a che fare con l’immaginario: la televisione. Si può dire che fino agli anni ‘80 nella società italiana il grande “aggregatore” è stata la Chiesa, per cui anche il non credente riconosceva e rispettava la Chiesa, e come diceva Croce “non possiamo non dirci cattolici”. Anche il non cattolico si nutriva dell’immaginario cattolico, magari per contestarlo. L’oratorio di fatto era frequentato da tutti gli adolescenti, come lascia intendere una delle canzoni più iconiche e “mitiche” della musica leggera italiana, Azzurro, cantata da Celentano, guarda un po’ proprio nel 1968, in cui già si avverte la nostalgia di un mondo che sta scomparendo, un mondo in cui c’era sempre “un prete per chiacchierare”.
Questa condizione, un paese che cresce “culturalmente cattolico” si è spezzato quando la Chiesa non ha più aggregato e al suo posto il grande aggregatore è diventata la televisione. All’inizio della sua storia italiana la televisione aveva cominciato bene, aggregando, anche fisicamente: un solo canale, per alcune ore al giorno, il giorno dopo l’Italia parlava di quell’unica visione condivisa da tutti e il fatto che poi non “tutti” avevano la televisione aggregava di più perché si andava al piano di sopra dove il notaio o l’avvocato era l’unico nel palazzo che aveva il nuovo meraviglioso elettrodomestico. Aggregazione fisica. Pian piano le cose cambiano e già nella prima metà degli anni ‘60 il poeta T.S.Eliot può annotare amaramente che «La cosa notevole della televisione è che permette a parecchi milioni di persone di ridere alla stessa barzelletta e tuttavia sentirsi soli». Un altro poeta, il friulano Pasolini, intuisce il potenziale oscuro della televisione e la devastazione etica prodotta dall’avvento della società dei consumi. Pasolini muore alla fine del ‘75, sono gli anni della svolta, dell’involuzione. L’Italia è cresciuta molto velocemente, il benessere individuale inizia a contare più del bene comune. Il senso dell’appartenenza, della comunità, comincia a sbiadire. Ma deve ancora passare la seconda metà degli anni ‘70, anni terribili. Il ‘77, il ‘78, gli anni tragici del terrorismo. Sono passati dieci anni o poco più e dal dream si è arrivati al nightmare. È l’inizio degli anni del “reflusso”, del dis-impegno, della fuga nel “privato”: la cosa pubblica è vista come una cosa sporca, corrotta, i giovani, soprattutto i cattolici, ripiegano nel sociale e disertano la politica. Si comincia a parlare di “volontariato”. Personalmente devo riconoscere che la passione per la politica resisteva, ma intorno vedevo sempre più coetanei disinteressarsi alle lotte dei partiti della cosiddetta “prima Repubblica”.
Gli anni ‘80 segnano l’uscita dal tunnel degli anni di piombo, la ripresa economica, sono gli anni degli yuppies, dei paninari e infine gli anni dell’esplosione delle tv commerciali: tanti canali, a colori, tutto il giorno… nelle case ormai ci sono più televisori, ogni membro della famiglia (in progressiva diminuzione) può scegliersi il suo programma, la coesione sociale, l’aggregazione è ormai in crisi. L’immaginario non è più condiviso.
Ma il vero spartiacque è il 1989: fine della guerra fredda, scoppia la pace. Che per i paesi liberali significa la vittoria contro “l’impero del male”, per l’economia significa vittoria del capitalismo e del mercato e per la società e la cultura significa fine, crollo, delle ideologie. È’ bella la pace, ma ha sempre un costo. La condizione di guerra, anche se “fredda”, aveva portato ad un innalzamento della qualità della lotta politica. La lotta non era una mera competizione, ma una vera guerra. In molti paesi si viveva una forma di guerra civile tra blocchi contrapposti e in palio non c’era solo la vittoria elettorale, ma la libertà, la vita. I partiti politici studiavano, erano scuole, generavano pensiero, cultura. Era tutto intriso dall’ideologia ma anche da una forte tensione ideale. L’orizzonte non era il prossimo appuntamento elettorale ma il futuro dell’umanità, e da quale visione della vita partire per imprimere rivoluzioni, riforme, cambiamenti graduali o radicali a questo nostro mondo. L’ideologia politica dunque contaminava tutto e soprattutto l’immaginario. Ho vissuto in quegli anni, nell’89 avevo 23 anni, e mi sembrò l’alba di un nuovo mondo che fino al giorno prima non era possibile nemmeno immaginare. Dopo oltre 70 anni il mondo del comunismo si sgretolava, e senza spargimenti di sangue…un sogno divenuto realtà. Le ideologie erano dunque crollate, il che è stato un bene perché l’ideologia cova sempre dentro di sé il germe della violenza, in quanto è in se stessa una violenza nei confronti della realtà.
Io ero un giovane appassionato di politica o, forse, difficile a dirsi, affascinato da quella tensione ideale che aveva incontrato nel mondo della politica. E questa è una domanda che ha a che fare con l’immaginario. Io, ad esempio, pensavo che la politica non fosse una “cosa sporca”. Non che non sapessi che la corruzione allignasse dentro i meccanismi del potere e delle istituzioni, ma avevo fatto esperienza della dimensione di “fede politica”, intendo dire con questa espressione che avevo conosciuto tante persone che “ci credevano”, pensavano che il proprio paese chiedesse e meritasse da parte di tutti un impegno concreto a migliorarlo, e che quindi si potesse e dovesse fare qualcosa provando a immaginare creativamente riforme possibili (o anche, all’inizio, impossibili) per realizzare un progresso nella direzione del bene comune, della comunità. Avevo conosciuto persone oneste, libere, e preparate a livello culturale, spirituale, animate da alti ideali. Forse è questo che nel concreto della vita delle persone, forma l’immaginario: l’incontro con gli altri, con il mondo.
Ora il problema per un giovane di 23 anni che si trova nel 1989 a volersi impegnare in politica è che la politica in qualche modo in quel periodo uscì di scena. Insieme alle ideologie erano crollati anche gli ideali (e con loro l’immaginario, il desiderio, il sogno) e forse anche le idee che sono i “mattoni” di cui ha bisogno la casa della politica per esistere. Finirono di colpo le idee, forse a causa della fine degli ideali e delle ideologie. Non ricordo grandi idee successive al 1989…forse l’unica è stata quella dell’Unione Europa, un’idea che però non è riuscita ancora a realizzare tutte le promesse e le premesse che erano insite nel sogno dei suoi padri fondatori: Schuman, Adenauer, De Gasperi..
Nella logica binaria, oggi si dice “polarizzata”, che vede tutto come una gara dove c’è chi vince e chi perde, il capitalismo aveva sconfitto il comunismo, di conseguenza il mercato divenne l’unica “idea” o, meglio, ideologia, esistente. E il mercato disse a tutti di scansarsi e lasciargli tutto lo spazio da occupare possibile, perchè “qui si lavora, non si fa politica”. Le “chiacchiere” della politica (anche quelle da fare con il prete) furono azzerate e l’economia riprese la primazia del campo. La lunga parentesi della guerra fredda, dove il “monoteismo” della politica aveva dominato, si era chiusa: riprendeva forza il politeismo dei poteri economici. Parafrasando Bergoglio: se il compito della politica è “avviare processi”, la natura dell’economia è “occupare spazi”.
Eccomi qua, in questo spazio occupato, senz’aria per respirare, negli anni ’90, l’epoca del divertimento sguaiato, dello “sballo”, dell’essere “spudorati” come valore, delle libertà (al plurale) al posto della libertà. Se il mondo occidentale “ha vinto” contro l’impero del male, se c’è una nuova “pax romana”, si può anche smettere di sognare, immaginare, pensare, agire, preoccuparsi e battersi per qualcosa. Ci si può accontentare di fare come fece Augusto in quella “pax” di due millenni fa: fare censimenti, contarsi, lasciare lo spazio alle statistiche, ai sondaggi d’opinione, alle ricerche di mercato. Per poi scoprirsi, dopo trent’anni, che i conti non tornano e il Vecchio Continente è diventato il Continente Vecchio, senza più giovani che sono i principali generatori dell’immaginario. E lo sono grazie ai vecchi: se i vecchi infatti non hanno più sogni, per dirla con il profeta Gioele tante volte citato da Francesco, anche i giovani smetteranno di avere visioni. E la visione è la materia di cui è fatta la politica. Qui si può ancora citare Papa Francesco quando sottolinea la differenze fra il sogno e il miraggio: “il sogno è condiviso, il miraggio è solitario“. Ritorna il tema, l’importanza, l’urgenza dell’aggregazione, del senso dell’appartenenza (oggi rimasto vivo soltanto nell’ambito della tifoseria sportiva): cos’è che aggrega oggi? Siamo forse destinati a vivere di miraggi, di sogni solitari? Proprio oggi che la tecnologia, si pensi all’intelligenza artificiale, sembra in grado di potenziare, realizzare, ogni sogno possibile e impossibile?

www.osservatoreromano.va/it/news/2024-03/quo-054/c-era-una-volta.html

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