L’esperienza religiosa ha valore pubblico. E non è mai statica. Dopo l’intervento a Rimini della Presidente del Consiglio dei ministri la questione della collocazione politica dei cattolici italiani è tornata a essere oggetto di numerose prese di posizione, sia nei movimenti e nelle associazioni cattoliche sia da parte di importanti voci laiche. La discussione non si è limitata al piano nazionale e ha coinvolto anche le dinamiche territoriali, anche perché si inserisce dentro un orizzonte nel quale si approssimano numerose e importanti tornate elettorali. Uno sguardo generale al modo in cui la questione è stata colta dal punto di vista politico permette di esemplificare in modo abbastanza netto gli orientamenti che caratterizzano il centro-destra e il centro-sinistra. Se il secondo insiste sulla profonda sintonia con i cattolici sui temi sociali e sulla questione della pace, dagli ambienti della coalizione di governo si rivendicano scelte che vorrebbero mettere al centro le questioni etiche e la coerenza fra l’appartenenza politica, l’aderire a un preciso orientamento culturale e il professarsi cristiani.
Il confronto fra questi due orientamenti non ha un peso solo nel quadro italiano. In forme e declinazioni diverse, per certi aspetti anche più accentuate, lo si ritrova in molti Paesi europei e nordamericani, nei quali si tende a leggere l’esperienza cristiana in chiave tutta politica. In questi contesti il problema del modo di essere cristiani nel nostro tempo viene colto dal punto di vista del rapporto con il potere, delle caratteristiche che quest’ultimo deve avere per poter godere di una forma di riconoscimento da parte dei cristiani. Vi è, in questo tipo di atteggiamento, un elemento distorsivo profondo, che nasce dall’ignorare la peculiarità dell’esperienza di fede, qual è anche quella cristiana e cattolica. Quest’ultima non è riducibile a fatto culturale, a un sistema statico e assoluto di valori che operano come tratto identitario e sono traducibili in agenda politica. In quanto fatto religioso la Chiesa e i credenti che ne fanno parte vivono nella città degli uomini, ma lo fanno da una posizione che li pone in dialogo e interazione con i linguaggi culturali e con le dinamiche di costruzione della comunità politica, senza però mai ridursi a nessuna di queste dimensioni.
È questa la specificità del piano religioso a cui la Chiesa, come ogni esperienza di fede, appartiene. E rimanendo fedele a questa sua appartenenza, con la libertà che le deriva dall’avere come unico vincolo l’assenso al Vangelo, che porta con sé quello alla dignità umana, la Chiesa non si estranea dal mondo ma lo abita con una capacità di umanizzazione che diviene bene comune. Questo stato di cose richiede una duplice assunzione di responsabilità. Da un lato, occorre che chi spende energie e intelligenza sul piano dell’impegno politico riconosca, comprenda e tuteli in modo compiuto la libertà dell’esperienza religiosa nella misura in cui questa ha un valore pubblico. Dall’altro lato, i cattolici e con loro tutti i credenti e tutte le comunità religiose sono chiamate ad avere cura della città, di quella dimensione pubblica in cui ogni essere umano può vivere la propria dignità. Queste considerazioni, che certo possono avere un’apparenza teorica, acquistano però estrema concretezza nella quotidianità delle nostre città. In luoghi come Milano o Torino o Napoli o Roma o Firenze, dove il pluralismo religioso riflette la lunga storia della vita civile e culturale e oggi è specchio di società ormai plurali, questa duplice consapevolezza, della politica e delle comunità religiose, diviene una delle pietre su cui ridare nuova forma al nostro essere cittadini.
*Comitato scientifico “Argomenti 2000”
avvenire.it/opinioni/pagine/cittadini-dentro-la-casa-di-tutti-mettiamo-in-gioco-quel-che-siamo?