Come ogni anno, anche in questa calda estate è iniziato il tour dei giri a vuoto sul tema del caporalato. Tanto battage pubblicitario, tanti selfie, tante firme su fogli inutili. Tante gite e passerelle politiche che nei fatti non produrranno nessun cambiamento. E nessun miglioramento per chi il caporalato lo subisce sulla propria pelle, siano essi italiani o migranti. Ma che forse faranno stare tranquilli e sereni sulle spiagge quelli che hanno fatto la loro bella figura. E quando ci saranno i nuovi morti della stagione potranno così dire «ma io ho fatto qualcosa» e «pace all’anima loro».
Per evitare che si continui a girare a vuoto, proviamo quindi a entrare nel dettaglio. E a spiegare come funziona la piramide dello sfruttamento nella filiera del pomodoro. Per comprenderla meglio, abbiamo inserito una mappa concettuale. Una vera e propria piramide dello sfruttamento che vede in cima il consumatore. All’apice del triangolo la G e Mdo, ovvero la grande e media distribuzione organizzata. Subito sotto l’industria di trasformazione. Poi l’OP, ovvero le organizzazioni dei produttori agricoli. E alla base il singolo produttore agricolo. In fondo, appunto, il lavoratore. Spesso vittima di caporalato.
La piramide dello sfruttamento nella filiera del pomodoro
È chiaro quindi che più si scendono i gradini più diminuisce il potere contrattuale e aumenta la ricattabilità. Pertanto, all’apice c’è un consumatore spesso ignaro di quanto potere abbia con i propri acquisti. E di quanto sia determinante la propria funzione. Mentre alla base c’è il lavoratore. Ossia, colui che per necessità lavorativa – spesso nel caso del pomodoro è un migrante – subisce il peso dello sfruttamento. E sempre più spesso del caporalato. Ovviamente il consumatore non è la causa diretta del caporalato. Ma è altresì vero che è un soggetto che con i propri consumi e acquisti può indirizzare la G e Mdo (grande e media distribuzione organizzata). Per esempio può privilegiare e premiare pomodori etici. O pomodori “caporalato free”.
Detto ciò, proviamo a concentrarci su un punto della filiera spesso sottovalutato, o comunque considerato marginalmente. Ovvero le eterne cenerentole nelle filiere produttive. Se coinvolte maggiormente e chiamate a responsabilità potrebbero essere loro la vera chiave di volta nel superamento del caporalato: le OP (organizzazioni dei produttori agricoli). Sul sito Agrologica c’è una guida esaustiva che ne illustra ruolo e funzionamento e che qui riprenderemo solo per sommi capi.
Perché le organizzazioni di produttori sono parte della soluzione
Le OP sono «associazioni volontarie di agricoltori che uniscono le loro risorse e competenze per migliorare collettivamente la commercializzazione, la produzione e la sostenibilità dei propri prodotti». Sono riconosciute sia a livello nazionale che europeo.
Funzioni e obiettivi di queste strutture sono molteplici:
• Migliorano il potere contrattuale dei produttori nei confronti dei compratori, permettendo la negoziazione di prezzi più vantaggiosi per i loro prodotti.
• Consentono ai propri membri di ridurre significativamente i costi operativi e di investimento, attraverso l’acquisto congiunto di materiali e servizi e la condivisione di infrastrutture e tecnologie.
• Promuovono pratiche agricole rispettose dell’ambiente e investono in ricerca e sviluppo.
• Forniscono un prezioso supporto nella gestione burocratica e nella conformità agli standard di qualità e sicurezza semplificando così l’accesso a certificazioni e marchi di qualità che possono ulteriormente valorizzare i prodotti agricoli sul mercato.
Per queste funzioni fondamentali che svolgono, o meglio, che dovrebbero svolgere, le OP attingono a diversi benefici a livello regionale, statale e europeo. Per aver diritto a queste agevolazioni, nonché ai finanziamenti pubblici a loro rivolti, le OP e i loro associati devono quindi rispettare norme e principi. In Puglia, uno dei luoghi simbolo della relazione tra pomodoro e caporalato, è ancora in vigore per esempio la legge 28/2006 “Disciplina in materia di contrasto al lavoro non regolare”.
Cosa chiedere a chi può davvero fermare il caporalato
Fatte queste dovute premesse, ritorniamo a coloro che vediamo girare a vuoto a favore di telecamera. Coloro i quali si limitano a fare scampagnate nei ghetti. O apporre firme su protocolli di intenti che poco o nulla incideranno su chi dall’alba al tramonto è chino a raccogliere pomodori. E che sono poi quei soggetti che avrebbero titolarità a fare i cambiamenti necessari. Rivolgiamo quindi loro la seguente domanda: ci vuole veramente tanto a chiamare le OP del pomodoro e attribuire loro una precisa funzione di lotta al caporalato? Le OP potrebbero infatti tranquillamente assumere, e fornire ai propri associati, la manodopera per la raccolta. E verificare così che non si faccia ricorso ai caporali.
È doveroso poi ricordare che, fino a qualche anno fa, nella contrattazione provinciale per le fasi di grandi raccolte (pomodoro, vendemmia, raccolta delle olive, eccetera) esisteva l’assunzione in convenzione. Ovvero la possibilità per aziende diverse di fare una unica assunzione attraverso il collocamento pubblico e utilizzare così la stessa squadra di operai per la raccolta. Le OP non sono forse anche loro un’associazione di aziende? Perché non potrebbero svolgere loro questa funzione? E visto che le organizzazioni dei produttori sottostanno, o almeno dovrebbero sottostare, al rispetto delle leggi, non potrebbero fornire loro ai propri associati manodopera nella legalità e senza bisogno di caporali?
Sconfiggere il caporalato richiede più di buone intenzioni
Limitarsi a incidere su questo livello della piramide dello sfruttamento non è però sufficiente. La lotta al caporalato va condotta dal principio. Adesso che siamo in estate per incanto ci si ricorda tutti che il caporalato esiste. Ma per combatterlo ormai è troppo tardi. La programmazione si deve fare nel periodo invernale. In primis, il prezzo di ritiro del pomodoro da parte dell’industria di trasformazione (secondo gradino della piramide, ndr) viene fissato tra gennaio e febbraio. A giugno è tardi. Perché gli agricoltori hanno già trapiantato il pomodoro e se non rientrano con i costi di cui sopra è evidente che taglieranno sui costi di raccolta.
Un’altra questione dirimente è la necessità di fissare un prezzo minimo di ritiro da parte della G e Mdo. Prezzo sotto il quale non si può andare, perché generebbe del sottocosto a cascata sull’intera filiera. Poi, guardando alla piramide nel suo complesso, andrebbero eliminate tutte le azioni speculative all’interno della filiera, che sono tante e variegate. E, infine, andrebbero appunto ottimizzate le procedure di assunzione del personale. Altrimenti, tutte le passerelle mediatiche di questi giorni, a cose fatte, al massimo servono a smuovere le coscienze. Il che è sempre utile, ma nei fatti non migliorano il contesto lavorativo. E non sono sufficienti alla lotta contro il caporalato.
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