Il governo Meloni ha un problema con la scuola. Non che negli altri campi brilli per efficienza, apertura mentale e sostegno ai cittadini, ma in pochi mesi si è già compreso come il ministro leghista Giuseppe Valditara non sia promotore di politiche eque. Giustamente ci siamo concentrati sul pestaggio squadrista di Firenze e sul conseguente misto tra ignavia e complicità della maggioranza, più feroce nel condannare la lettera antifascista della preside Annalisa Savino che l’aggressione stessa. Quasi sottotraccia, Valditara e l’esecutivo stanno però portando avanti un altro progetto, legato a quell’autonomia differenziata targata Calderoli che già dai tempi di Bossi bagnava i sogni di tutti i leghisti e che tocca direttamente gli stipendi degli insegnanti. Il ministro ha infatti paventato l’ipotesi di differenziare il salario in base al costo della vita di ogni singola regione. In poche parole: un ritorno alle gabbie salariali, insegnanti del Nord che guadagnano più di quelli del Sud e disparità nazionale che affosserebbe ulteriormente il Meridione.
Circa un mese fa, Valditara disse a un convegno: “Chi vive e lavora in una regione d’Italia in cui il costo della vita è più alto potrebbe guadagnare di più”. Subissato dalle critiche delle opposizioni e dai tentativi di mettere una toppa di alcuni membri dell’esecutivo, fece dietrofront dichiarando: “Non è mai stato messo in discussione il contratto nazionale del mondo della scuola”. Il dibattito si è però riacceso ieri quando Carlo Cottarelli, senatore eletto con PD e +Europa, in un’intervista su Libero ha dichiarato di essere favorevole alla proposta di Valditara di aumentare gli stipendi agli insegnanti al Nord. Cottarelli, pur non avendo la tessera del Partito Democratico, rientra tra gli esponenti di centrosinistra, o presunti tali, che si sono allineati a certe iniziative tipicamente leghiste volte a favorire l’economia del Nord, indubbiamente locomotiva del Paese a livello di Pil, a scapito però di quella del Sud.
Già in passato Beppe Sala, sindaco di Milano, ritenne sbagliato che un lavoratore di Milano avesse lo stesso stipendio di un suo pari grado di Reggio Calabria, pur non riferendosi nel caso specifico agli insegnanti. Elly Schlein si è già schierata contro l’autonomia differenziata di Calderoli, spiegando come sia un tentativo di forzare la Costituzione creando ancora più diseguaglianze territoriali. Sul tema degli insegnanti meridionali al Nord va però analizzata la situazione alla radice, invece di cercare palliativi che non arginano un fenomeno ma lo inaspriscono. Lo Stato non dovrebbe allargare il gap tra Nord e Sud, ma far sì che gli insegnanti possano lavorare nel loro luogo d’origine.
Negli anni, le fantomatiche promesse su un insegnamento “a chilometro zero” si sono infrante davanti allo scoglio insormontabile del dislivello tra alunni del Nord e del Sud e del conseguente vuoto professionale in certe realtà d’Italia. Sono gli stessi numeri ministeriali a parlare: se abbiamo quasi un milione e quattrocentomila studenti nella sola Lombardia e duecentosettantamila in Calabria, il docente di Catanzaro per forza di cose sarà costretto a trovare una cattedra in un paese in provincia di Brescia e non nella sua città. Chi tenta la strada dell’insegnamento è il primo a saperlo e andrà incontro al sacrificio di peregrinare tra scuole del Nord per diversi anni. È una vera e propria migrazione di massa di un’intera categoria. Se i nostri nonni andavano al Nord perché c’erano più fabbriche, oggi i loro nipoti del Sud seguono lo stesso percorso perché ci sono più scuole e studenti. Cinicamente è una questione di mercato legata al rapporto tra domanda e offerta.
Si tratta però della conseguenza di un problema più ampio che si basa su diversi fattori, dallo spopolamento del Sud all’abbandono scolastico che nel Meridione ha percentuali nettamente più alte. La scuola, dunque, viene coinvolta in seguito a problemi strutturali che ci trasciniamo da decenni e che creano un effetto domino: scarsi sbocchi lavorativi al Sud che portano i giovani a lasciare i propri paesi d’origine, trovandosi in una realtà dove il costo della vita è estremamente più alto. Gran parte dello stipendio di un insegnante al Nord va via solo per gli affitti sempre più alti e per le spese basilari. In tutto questo, il problema del carovita grava anche per chi è nato al Nord, e pure i docenti settentrionali che lavorano nella propria città guadagnano poco, considerando che lo stipendio medio di un insegnante italiano è tra i più bassi di tutta l’Unione Europea.
Valditara ha pensato di risolvere il problema concentrandosi solo sulla punta dell’iceberg e non sulla tutela del territorio e su politiche tese a favorire l’inserimento nel mondo lavorativo all’interno della propria realtà. Un insegnante che nasce al Sud è costretto ad andar via, non è una scelta di vita dettata dal desiderio di fare un’esperienza altrove, come se fosse una scampagnata o una sorta di Erasmus fuori tempo massimo. L’unità nazionale deve partire necessariamente dal lavoro, permettendo al cittadino di poter esercitare nel suo luogo di residenza. Invece di aumentare gli stipendi degli insegnanti al Nord, bisognerebbe investire su un piano socioculturale al Sud, dove negli ultimi dieci anni c’è stato un crollo degli investimenti del 30%, come denunciato da SVIMEZ durante l’incontro “Un Paese due scuole”. Mai titolo fu più veritiero: Valditara deve fare i conti con la realtà e capire che in Italia esiste una scuola del Nord e una del Sud.
C’è uno scollamento sociale che si concretizza con il calo di 250mila studenti dall’infanzia alle superiori al Sud per mancanza di servizi e infrastrutture. Basti pensare che nelle scuole primarie del Sud il 79% degli alunni non dispone di alcun servizio mensa. In Campania e Sicilia si arriva addirittura all’88 e all’89%. Al Centro-Nord la percentuale è del 46%: c’è un abisso, come se non parlassimo di scuole della stessa nazione. Inoltre, soltanto il 18% degli studenti del Mezzogiorno ha accesso al tempo pieno a scuola, mentre al Centro-Nord il 48%. Va anche detto che, al contrario, al Nord c’è una carenza di docenti, con circa 100mila posti vuoti, coperti dalle supplenze degli insegnanti del Sud. Anche questo è un aspetto da affrontare: il docente del Sud non emigra ottenendo un posto di ruolo, ma per un vero e proprio viaggio della speranza per accumulare il punteggio necessario per coltivare la speranza di tornare, un giorno, nella propria Itaca. Lo fa attraverso le Graduatorie ad esaurimento (GaeAE) e alle Graduatorie provinciali per le supplenze (GpsPS). In parole povere: gli insegnanti meridionali sono dei tappabuchi alla costante ricerca della chimera del posto fisso.
Spesso non riescono nemmeno a creare un legame solido con le realtà in cui, bene che vada, vivranno solo per qualche mese, o un anno. Così non si crea una continuità nella didattica, nel rapporto con gli alunni e nell’ambientamento nel nuovo territorio che in alcuni casi appare anche come ostile per ragioni ambientali ed economiche. Se più di metà stipendio, infatti, deve essere usato per l’affitto – e non solo a Milano, un po’ ovunque da Roma in su – quel che rimane è una vita di frustrazione in attesa della prossima supplenza, di un vuoto da riempire, perché non c’è uno Stato efficiente nella tutela di uno dei mestieri più importanti della nostra società, sicuramente sfiancante – e non a caso i docenti dell’infanzia e della primaria rientrano nella categoria dei “lavori usuranti”, che possono ottenere la pensione anticipata. Ed è uno scandalo che non vengano considerati allo stesso modo anche gli insegnanti dei gradi superiori, come se gestire una classe di trenta adolescenti in subbuglio fosse più semplice di insegnare alle elementari.
Il ministro Valditara dovrebbe almeno mostrarsi più consapevole delle difficoltà di un’intera categoria. Il problema della scuola andrebbe affrontato in modo più esteso, favorendo le politiche per il Mezzogiorno ad ampio raggio, perché la condizione di un insegnante è la cartina di tornasole per misurare lo stato di salute di un Paese – essendo ingiustamente tra i primi a pagare le conseguenze di una crisi. Se esiste il diritto allo studio, anche quello all’insegnamento dovrebbe essere preservato senza diseguaglianze di alcun tipo, specialmente geografiche. Ma questo diventa difficile se abbiamo al governo un partito nato con l’intento di una scissione tra Nord e Sud – la Lega – e chi, nel corso dei decenni, ha tagliato i fondi alla scuola e realizzato riforme abominevoli come quelle di Moratti e Gelmini – Forza Italia. Partiti che tra l’altro sono stati molto votati anche al Sud; alla Lega, infatti, è bastato togliere la parola Nord dal suo nome per darsi una ripulita d’immagine. Fratelli d’Italia non intende di certo invertire la rotta, e anzi si dispone a testuggine per difendere Valditara, Calderoli e chiunque proponga disparità di trattamento di vario tipo. Un Paese a due scuole non progredirà mai, in quanto la coperta sarà sempre troppo corta da un lato. A quanto pare, il governo Meloni accetta questa divisione e no, non è una lamentela da neoborbonici che si azzuffano con il Nord a causa di ideologie distorte, è la realtà di chi è costretto a vivere a mille chilometri da casa nell’odissea delle supplenze infinite e deterioranti, in preda all’incertezza, mentre la sua terra si svuota e restano solo le macerie.
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