Edoardo Martinelli, oggi educatore, che tramanda il metodo della “scrittura collettiva” servita a scrivere Lettera a una professoressa, ha vissuto da allievo l’ultimo periodo della scuola di Barbiana e non ci sta a sentirla descrivere, come ancora sta accadendo in queste ore, come una scuola che si accontenta, che abbassa le richieste, che in fin dei conti fa un torto alla cultura. La sua esperienza di allievo degli ultimi anni, che ha frequentato Barbiana tra il 1964 e il 1967, quando aveva tra i 14 e i 17 anni racconta tutt’altro.
Martinelli, dov’è l’errore?
«Il discorso è complesso: io credo che l’equivoco nasca non tanto da chi, come Galli Della Loggia, critica don Milani partendo da un modo di pensare diverso dal suo, ma dal fatto che, in perfetta buona fede, chi voleva difendere i valori di Barbiana, l’ha raccontata spesso senza tenere conto dell’evoluzione che quel contesto sociale e quella scuola in 13 anni di vita hanno conosciuto. Padre Balducci, per esempio, che è stato un maestro stimabile nel senso che tutti noi da lui abbiamo imparato, ha sempre parlato di Barbiana come di una comunità di bambini, non ha mai descritto Barbiana come una comunità pensante. Ma quando ci sono stato io a Barbiana non eravamo più bambini: io ci sono rimasto per scelta, ho accompagnato don Milani fino alla morte ed ero un diciassettenne che era stato tre anni alla scuola di Barbiana. Non riconosco la mia Barbiana nel racconto che riconduce tutto al 1954, quando don Milani ci arriva e non c’è strada, luce, gas, acqua corrente e nell’espressione “Barbiana è come l’Africa”, perché in 13 anni sono cambiate tante cose».
Gli si imputa di aver ridotto l’orizzonte della sua scuola alla cultura contadina.
«Al direttore didattico di Vicchio Zangrilli, che gli chiede “spiegami il miracolo di Barbiana”, risponde: “Lo devo alla cultura contadina”, sobria e non permissiva, non al contadino in sé che umanamente può avere tutti i difetti del mondo. Io non ho vissuto l’arrivo a Barbiana, ho vissuto dopo nelle famiglie di Barbiana e mi è stato raccontato. Mi è stato raccontato da Quintilio che don Milani era arrivato su che pioveva d’inverno, che aveva perso metà del mobilio perché non c’era strada. Un uomo della sua intelligenza ha capito subito che il problema di Barbiana era la comunicazione, la distanza, l’isolamento in vetta a una montagna. La sera stessa ha messo su una scuola, ma per prendere la patente per il motorino. Se ci si ragiona è una grandissima strategia pedagogica. Non potevi attrarre un contadino la prima sera offrendogli Dante, cominciavi ad offrirgli una cosa di cui avevano bisogno, ma la grandezza di don Milani è stato capire che se volevano prendere la patente del motorino dovevano come minimo imparare a leggere, a capire quello che leggevano e a scrivere. Per lui l’emancipazione passava attraverso la grammatica, l’analisi logica, lo studio della storia, per l’acquisizione della parola che non serve a ripetere la cultura del sistema ma a esprimere la tua. A Barbiana restavi perché ci trovavi un uomo di cultura, un intellettuale come don Milani, che ti apprezzava al punto da condividere la tua cultura: non ti diceva ti do quello che ti manca, ma ti do lo strumento per esprimere le cose belle che hai dentro e per conquistarti le cose che puoi imparare. Che cosa c’è di più cristiano? Don Milani è partito da San Donato e ha vissuto un processo evolutivo: mi emozionano ancora tantissimo per esempio le scritture collettive, quando contestualizzava il Vangelo, spiegando ai bambini i chilometri a piedi della Maddalena, la fatica dei pescatori. Faceva vivere il contesto reale di Gesù, che era la stessa dimensione che vivevano lui e i suoi parrocchiani: i contadini di Barbiana. La Gina, Beppone, Beppe Burberi, Quintilio… tutte le famiglie che erano lì e non avevano la capacità di esprimersi ma avevano una grande cultura: mettevi un contadino in un deserto sapeva sopravvivere. Questo era il fascino che don Milani aveva della cultura contadina. Don Milani aveva condiviso totalmente la realtà delle persone che gli erano state affidate in un amore totale, che però non era amore universale».
Nel senso che era legato a quel popolo, a quel territorio?
«Esattamente. Se non parti da questo presupposto, non capisci nulla di Barbiana. Molti hanno commesso l’errore di pensare che don Milani fosse un cavallo di razza e che se fosse sparito il cavallo di razza e fosse arrivato il ciuco la scuola non avrebbe funzionato più: come se don Milani non avesse avuto un metodo o delle idee, ma solo un istinto individuale, istrionico. Non solo, il più delle volte si è raccontato solo un segmento di Barbiana senza tenere conto dalla capacità di don Milani di adattarsi al contesto che cambiava, come se fosse stato sempre uguale a sé stesso o peggio un gambero che camminava all’indietro. Don Milani non ha mai fatto una lezione frontale: la sua non era una scuola facile, né una scuola imperativa. Nel 1963 don Milani che non si muoveva più, se non per andare dalla madre o da don Bensi una volta ogni quattro mesi, partecipava al dibattito, rilanciava quella che oggi chiamano la didattica attiva, per cui spesso si usano termini inglesi peer to peer, cooperative learning, la praticava molto prima che se ne parlasse».
Si parla della sua scuola – a volte per criticarla – come di una scuola “democratica”. Lo era?
«Don Milani diceva: i padri costituenti ci insegnano a scrivere. Ogni padre costituente ha dovuto rinunciare a parte del proprio pensiero per trovare un argomento comune di valore universale e allinearsi con quello che la pensa in un’altra maniera. La scrittura collettiva rifacendosi a quel modello non è un collage di idee ma una vera e propria palestra di democrazia. Don Milani ci educava a esprimere la nostra opinione e ciascuno di noi la scriveva su un fogliolino, questa opinione anonima andava in un mucchietto con le altre opinioni su un tavolo, noi le riprendevamo una alla volta, con tutte le difficoltà di tempi in cui si lavorava solo sulla carta: dall’opinione si doveva risalire alla verità e la grammatica e l’analisi logica erano la bussola per costruire il discorso. A Barbiana con questo metodo imparavamo a scrivere. Tutti i ragazzi di Barbiana come minimo hanno scritto un saggio intelligente, un testo comprensibile, tanti anche un libro. Se ci sono arrivati è perché a Barbiana s’è imparato a scrivere».
Dov’è Barbiana oggi?
«In un mondo in cui i bambini nativi digitali non memorizzano più perché dormono cinque ore per notte, sempre attaccati agli schermi. Barbiana oggi è nella realtà in cui un liceale che nel 1990 aveva 1.600 parole, ora ne ha forse 400. Ma non è l’intelligenza del bambino a essere cambiata è il suo essere esposto a una rivoluzione violenta dove domina la tata-display. Rispettare l’eredità di don Milani è capire che cosa si può fare per restituire la parola in questo contesto, è rispettare don Milani quando ci diceva: essere fedeli a un morto è il massimo dell’infedeltà. La scrittura collettiva è un metodo che possiamo salvare adattandolo al contesto che la realtà attuale ci dà».
L’equivoco su Barbiana scuola facile è duro a morire. In realtà in Esperienze pastorali, parlando di cultura del prete: don Milani dice che chi ha le ali non deve rinunciarvi per stare al passo con chi cammina, ma insegnare a volare. Come se ne esce?
«Smettendo di chiedersi se l’autore della scrittura collettiva – e con essa Lettera a una professoressa – fosse il maestro o l’allievo. Per come l’ho vissuta io, che l’ho vista nascere e purtroppo anche morire perché su quel metodo Milani è stato ascoltato poco, non è né del maestro né dell’allievo, ma è nel processo. Don Milani aveva capito che attraverso quel metodo si raggiungeva un livello di presa di coscienza altissimo. Nel mio periodo Barbiana era una scuola superiore: dimentichiamo i bambini, io ero il più piccolo e avevo 17 anni, i più grandi ne avevano 24. Eravamo in tutti i partiti, chi Pc, chi Psi, chi Dc nelle realtà in cui vivevamo, ma avevamo un metodo di ragionamento capace di turbare l’anima a tutti. Il grande valore educativo di don Milani era farti capire che si potevano avere idee diverse, ma che poteva esserci una trasversalità tra persone capaci di pensare che, nella sua espressione massima, portava a scrivere la Costituzione. Questo era il grande valore educativo».
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