Gentile direttore, ho ascoltato con molta attenzione l’intervento della presidente Giorgia Meloni al Meeting di Comunione e Liberazione. Devo ammettere che ha saputo toccare le corde giuste della platea di Rimini, da sempre animata da spirito governativo e orientata verso il centro destra. La famiglia, la parità scolastica, il reddito di cittadinanza contrapposto al diritto al lavoro, la difesa della vita, la sussidiarietà, i valori dell’Occidente, le guerre. Magari ci potremmo chiedere perché abbia taciuto sulle fatiche delle famiglie italiane, sul lavoro mal pagato, sulla sanità pubblica in affanno, sui morti nel Mediterraneo, sull’aumento della povertà, sulle crisi industriali, sui doveri delle politiche pubbliche verso il volontariato… Vorrei tuttavia soffermarmi su un passaggio della fase finale dell’intervento che mi ha particolarmente colpita, come iscritta dai primi anni ‘50 all’Azione Cattolica Italiana: «Voi, che siete rimasti fedeli al carisma del vostro fondatore, non avete mai disprezzato la politica. Anzi. Non vi siete rinchiusi nelle sacrestie nelle quali avrebbero voluto confinarvi, ma vi siete sempre “sporcati le mani”. Declinando nella realtà quella “scelta religiosa” alla quale mezzo secolo fa altri volevano ridurre il mondo cattolico italiano, e che San Giovanni Paolo II ha ribaltato, quando ha descritto la coerenza, nella distinzione degli ambiti, tra fede, cultura e impegno politico». Per prima cosa mi sono chiesta come e quando Giorgia Meloni abbia potuto maturare tanta competenza sulle questioni del movimento cattolico italiano (al quale non mi risulta abbia mai appartenuto) e della Chiesa italiana post-conciliare, entrando a gamba tesa nel merito di un confronto che è stato anche molto lacerante per l’associazionismo cattolico. L’uso di una espressione come «scelta religiosa», il «cambio di passo» di Giovanni Paolo II, il riferimento al «celebre discorso di don Giussani ad Assago 1987» lasciano intendere che non sia il frutto di un corso accelerato, ma di un aiuto molto generoso e ben informato, magari con la testa rivolta al passato. Sul banco degli imputati rischia così di finire l’Azione Cattolica italiana, storica associazione del laicato del nostro Paese che, nella scia del Concilio Vaticano II, rinnovò il suo Statuto nel 1969. Il Presidente in quella stagione di rinnovamento era Vittorio Bachelet, professore universitario barbaramente giustiziato dalle Brigate Rosse quando era vice presidente del Csm, e quella svolta fu ispirata e approvata da Paolo VI, oggi Santo. L’AC, dando vita alla “scelta religiosa”, intese abbandonare la stagione del “collateralismo” con la politica attiva, con la Democrazia Cristiana (dicono ancora qualcosa i Comitati Civici di Luigi Gedda?) per affermare nell’associazione il primato della Parola e dell’Eucarestia, della formazione, del servizio alla Chiesa, dell’evangelizzazione e promozione umana. In tempi storici di grande cambiamento non fece una scelta intimistica, non si rifugiò nelle sacrestie, ma con la Chiesa del Concilio volle riscoprire la centralità del Vangelo, da cui tutto il resto prende significato. Come diceva Bachelet: quando l’aratro della storia scava a fondo è necessario gettare seme buono. Quel seme è il Vangelo dal quale tutto il resto prende significato, anche l’impegno culturale, sociale, politico. Per l’AC, il servizio al mondo passa attraverso la formazione alla responsabilità personale e civile. Il laico cristiano è chiamato a «essere nel mondo senza essere del mondo», con uno stile sobrio, dialogico, mai di giudizio, spesso silenzioso, sempre con uno spirito di servizio, non di dominio. Per servire il bene comune, non il proprio tornaconto o l’interesse del proprio gruppo di appartenenza. L’impegno è vissuto nella comunità civile e politica, nelle istituzioni, nella cultura, secondo criteri di laicità e discernimento. L’impegno politico è assunto dal singolo che si assume la responsabilità delle sue scelte senza chiamare in causa l’Associazione e soprattutto la Chiesa, che devono restare libere di annunciare il Vangelo a tutti, anche a chi fa scelte politiche diverse. È vero, l’AC non ha dato vita a opere visibili, non gestisce strutture economiche, la sua presenza associativa è nella chiesa locale, ma i suoi aderenti sono ovunque, in ogni ambiente di vita, di lavoro, di volontariato, di impegno culturale. In questi anni non si contano gli amministratori locali che si sono formati in Azione cattolica, alcuni di loro sono consiglieri e assessori regionali, altri hanno rappresentato il Paese in Parlamento e lo hanno servito con incarichi di governo. Mi sembra di ricordare che un Presidente della Repubblica portasse il distintivo dell’AC anche quando riceveva capi di Stato e non solo Giovanni Paolo II al Quirinale. Quel Papa Santo venuto da lontano, al quale andrebbe riconosciuta la fedeltà al Concilio Vaticano II e il cui magistero non andrebbe contrapposto a quello dei suoi predecessori e dei suoi successori.
Vorrei suggerire alla Presidente Meloni di fare davvero un corso accelerato sulla storia del Movimento cattolico italiano e di portare rispetto per il pluralismo che lo caratterizza e soprattutto di non coltivare il seme della divisione emettendo giudizi sommari sull’una o sull’altra delle sue componenti per prendere un applauso più lungo. Mi permetto anche di chiedere alla platea di Rimini se, applaudendo Giorgia Meloni sui passaggi riservati alle riforme costituzionali, fosse pienamente consapevole del contributo che i cattolici hanno offerto, prima alla Resistenza e dopo alla stesura della nostra Costituzione, sia sui principi fondamentali che sull’impianto istituzionale, a partire dalla centralità del Parlamento, l’autonomia della magistratura e l’unità della Repubblica. Il cardinale Martini definì quello di Bachelet un martirio laico, perché non fu ucciso mentre proclamava la fede, ma quando serviva i valori di democrazia, di libertà, di pace. Quando serviva la Costituzione. Forse questo è il modo giusto di sporcarsi le mani. Espressione da usare sempre con prudenza, quando si parla di politica.
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