La nazione armata e l’apprendista stregone, Guido Moltedo

Tyler Robinson, 22 anni, è uno dei centosette milioni di americani che possiedono almeno un’arma da fuoco. Charlie Kirk, 31 anni, è una delle quarantamila vittime di sparatorie che ogni anno insanguinano l’America. L’omicidio, nella Utah Valley University, è il quarantottesimo fatto di sangue accaduto in una scuola o in un ateneo americano nel corso di quest’anno, con un bilancio di 19 morti e 77 feriti.
Un presidente beniamino della lobby dei produttori e venditori di armi da fuoco, questi dati non lo turbano certo. Nella convinzione che più aumentano le vittime delle sparatorie più crescono vendita e diffusione di pistole e fucili. D’altronde, come affermava lo stesso Kirk, cosa vuoi che siano tutte queste vittime al confronto con le cinquantamila persone che ogni anno muoiono on the road? «Avere una cittadinanza armata ha un prezzo, ma è parte della libertà», predicava lo sventurato che il popolo di Maga piange promettendo vendetta.
Banalizzare gli episodi di sangue in una nazione in cui quattro famiglie su dieci tengono in casa un fucile o perfino un mitragliatore, è stata una costante della politica conservatrice, ma anche democratica, con pochi deboli tentativi di regolamentare davvero il possesso delle armi da fuoco. 
Se i repubblicani sono i paladini dell’intoccabilità del Secondo emendamento costituzionale – anche Kirk lo era – che garantisce il diritto dei cittadini di possedere e portare armi, i democratici hanno sì affrontato il tema, ma con timidezza politica, e soprattutto senza mai ipotizzare e cercare in qualche modo di prevenire quello che sta avvenendo, cioè la tracimazione del problema da questione di salvaguardia della convivenza civile a questione di guerra civile. Non metaforica. Reale.
L’omicidio di Kirk segna una svolta in direzione di un possibile, vicino, precipizio verso forme diffuse di conflitto sanguinoso in un paese armato fino ai denti. Ingenue, per non dire altro, certe reazioni di mal celato, o perfino ostentato giubilo per la fine di Kirk, in ambienti della sinistra americana, non necessariamente radicale. «L’assassinio di Charlie Kirk è una tragedia – ammoniscono su Jacobin Ben Burgis e Meagan Day – minaccia di imbaldanzire l’estrema destra e di offrire un pretesto a Donald Trump per schiacciare il dissenso. Una spirale di violenza politica più ampia sarebbe una catastrofe per la sinistra».
Naturalmente i due autori si aspettano «una strenua controargomentazione» a quest’invito a tenere i nervi saldi, a non finire nel gorgo dell’occhio per occhio, come vorrebbe la destra e come sta già accadendo da parte del mondo Maga.
Fatto sta, come osserva giustamente l’americanista Arnaldo Testi, l’America «ha attraversato almeno un’altra drammatica stagione di assassinii politici, con una differenza: non c’era uno così alla Casa bianca». E quell’uno così, l’artefice della rivolta del 6 gennaio, il sovversivo, «The insurgent» della famosa copertina dell’Economist, sta adesso meditando se, come e quando far montare il caso, dando la caccia non solo «ai pazzi dell’estrema sinistra», ma ai democratici stessi – come chiede la sua base, che intanto ha dato un assaggio delle sue intenzioni con un ordigno collocato nei pressi della residenza del vicegovernatore del Michigan, Garlin Gilchrist (il Michigan della governatrice Gretchen Whitmer è tra gli stati che più contrastano Trump).
Come dopo il fallito tentativo di farlo fuori nel comizio elettorale a Butler, un anno fa, Trump pigia alternativamente sui tasti del vittimismo e della minaccia, della vendetta e del volemose bene. È un gioco sul filo perché un exploit della violenza da parte della sua base, istigata da lui stesso, potrebbe uscire dalla sua capacità di controllo.
Certo è che l’attentato di Butler l’aiutò nella sua corsa verso la Casa Bianca, in un momento in cui Kamala Harris sembrava aver preso il sopravvento. Adesso la vicenda di Kirk può rivelarsi provvidenziale in una fase di sondaggi molto bassi e di difficoltà su più fronti, non ultimo quello dello scandalo Epstein, che non è ancora andato giù alle frange estreme di Maga.
La retorica del «santo subito» già rimbomba. Sedici parlamentari repubblicani hanno scritto allo speaker della camera, Mike Johnson, proponendo l’erezione di una statua in onore di Kirk. E chi si azzarderà a mettere in discussione idee lunatiche come questa, o a dubitare della santità di Kirk, passerà i guai. Tanto per cominciare s’inizierà dagli stranieri puniti come si deve se «elogeranno» la morte di Charlie Kirk, o «ne daranno una spiegazione» o vorranno «sminuirla».
Un avvertimento trasversale ai media liberal, che presentano Kirk nei loro ritratti non proprio come un santo. Fanatico evangelista, non si faceva mancare nessun tipo di odio, contro lgtbq, neri, musulmani. Ed ebrei. Antisemita, come scrive il Nyt, era un sostenitore d’Israele, tanto che la leadership governativa di Tel Aviv lo piange come «un amico cuor di leone d’Israele» – parole di Netanyahu – impegnato nella lotta contro «le bugie» e a sostegno granitico della «civiltà giudaico-cristiana».
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