Il neo tribalismo dei nostri tempi, di Riccardo Cristiano

Il 3 ottobre 2023 i trumpiani ottennero un’importantissima vittoria parlamentare con il voto di sfiducia dello speaker del Senato, il repubblicano (non trumpiano) Kevin McCarthy. Può apparire un fatto ormai irrilevante, ma è importante ricordare che uno dei senatori più attivi del fronte che ne determinò la sconfitta, Matt Gaetz, esultò, così ho letto, definendosi un “tribalista bannoniano”.
Dopo il voto Trump lo designò Procuratore Generale nella sua seconda amministrazione, incarico a cui Gaetz rinunciò per le polemiche che suscitò e così non mettere in difficoltà il Presidente.
Per quanto lui preferisca definirsi un “populista libertario”, quella di “tribalista bannoniano” è la definizione che mi ha interessato. Ho cercato la frase testuale senza successo e me ne duole, perché un possibile neo tribalismo mi sembra il tratto che segna il nostro tempo, ma tendo a credere a quanto a scritto il professor Riccardo Lucchetti al riguardo: perché inventarsi un’espressione del genere?

La debolezza dello stato
Il tema non è certo nuovo, ma se ne è parlato soprattutto in merito alle tribù che abitano i social, espressione della polarizzazione del confronto politico per cui o si è “con loro” o si “contro di loro”: questo tribalismo tra l’altro è un surrogato delle vecchie relazioni interpersonali, sempre più rarefatte.
Molti hanno stabilito un rapporto diretto tra Trump e il “tribalismo”, ma in termini di polarizzazione dello scontro, tra “noi” e “loro”, come ha indicato meglio di altre volte quando è stato processato, dicendo “non ce l’hanno con me, ce l’hanno con voi”. Il discorso può essere portato oltre i confini della non certo irrilevante polarizzazione senza più mediazioni?
Il professor Lucchetti convince anche quando scrive che non dovremmo considerare il tribalismo come qualcosa a noi ormai estraneo: il nostro “tribalismo”, più o meno “light”, resiste soprattutto lì dove lo Stato è debole.
Nel tribalismo troviamo un rifugio, una garanzia, una protezione: può essere l’amico che ci fa togliere una contravvenzione, o quello che ci aiuta a ottenere un incarico, o a trovare un impiego. Ritengo che, da quando esiste, uno Stato debole è decisivo per il riaffacciarsi di forme più o meno rilevanti di tribalismo. Da quando lo Stato moderno è emerso, in Europa, ha soppiantato l’ordine feudale e ha trovato, in forme diverse, un equilibrio nei poteri con il suo grande interlocutore, la religione. È lo Stato laico, sebbene declinato in forme molto diverse.
Il Concilio Vaticano II non ha significato solo accettazione dell’altro, ma ha portato anche altre aperture: la società arcaica non ha coinciso più con quella religiosa e lo Stato ha garantito soprattutto il nuovo ruolo femminile con legislazioni specifiche. È stata una stagione che ha coinciso con l’emergere di quello che chiamerei il protagonismo dei meritevoli e delle meritevoli in un contesto di espansione, e ha funzionato fino a quando le opportunità, offerte dalla realtà economica e garantite dallo Stato, sono state crescenti.
Il nuovo sistema potrebbe riassumersi nella sua parte positiva definendolo “impersonale”: il tuo tema vale e tu procedi a prescindere dal tuo cognome, la tua carta di credito ti dà copertura e tu acquisti il biglietto, a prescindere dal cognome di chi arriva dopo di te e non ne trova altri. Così non ci siamo sentiti più costretti a pensare che il proprio ruolo potesse essere predefinito.

Gli “sconfitti” della globalizzazione
Le difficoltà principali, oltre ad altre ovviamente, sono emerse con la globalizzazione e il restringimento delle opportunità di crescita personale, di tutela e affermazione, che hanno creato “gli sconfitti della e dalla globalizzazione”. Molto spesso si citano gli “ex operai” americani, quale base arrabbiata e innamorata del progetto MAGA. È accaduto anche in Europa; molti si sono trovati senza lavoro e privati anche dell’appartenenza a una classe, con una sua cultura.
Negli esclusi, negli sconfitti della e dalla globalizzazione si è affacciata una possibile nostalgia per la società arcaica? Nostalgia di tutele che anziché aumentare sono parse ridursi? Più evidente mi sembra il fatto che i sommovimenti del tempo recente ci parlino di un ritorno dell’apprensione per un crescente disordine sociale: è lecito domandarsi se questo non possa riportare tra le nostre “reazioni naturali” la ricerca di un capro espiatorio? Siamo tornati a sperare che individuarlo ci aiuti a ritrovare un ordine sociale?
Nei miti dei popoli primitivi il meccanismo del capro espiatorio prevedeva una violenza collettiva, fortissima. Solo questa consentiva di ritrovare lo smarrito ordine sociale. Nelle più antiche società primitive, quindi tribali, questo meccanismo collettivo era ritenuto fondamentale per ritrovare la concordia sociale. Poi i miti si sarebbero “edulcorati”: la colpa diventava relativa, ma c’era. Il capro espiatorio era comunque responsabile, ma un po’ meno, e la violenza da collettiva diventava delegata a gruppi. Ma rimaneva necessaria.
Nelle crescenti difficoltà in cui si trovano gli sconfitti della e dalla globalizzazione, la ricerca di un capro espiatorio si può intravedere in certe forme estreme anti-immigrati: come la grande deportazione di Trump, o la cosiddetta “re-migrazione”. Sono ricerche di capri espiatori per convincerci di aver trovato il colpevole del disordine sociale? In particolare, la re-migrazione cosa propone se non un ritorno alla purezza etnica, come ai tempi antichi, quando la tribù era tale?
Non si fa riferimento al capro espiatorio del Levitico, radicalmente diverso, ma a quello dei miti primitivi, a noi pressoché sconosciuti. Però Renè Girard, il grande antropologo francese, ci spiega che il mito di Edipo è una riproposizione del mito del capro espiatorio. Edipo era un re zoppo, e questo lo distingueva. Ma l’individuazione delle sue colpe di cui lui era inconsapevole si verifica quando la peste devasta Tebe e Edipo viene mandato in esilio per porre fine alla peste e ritrovare l’ordine sociale. Si tratterebbe di un esempio di “mitologia edulcorata”, con la colpa non evidente ma pur sempre tale e come punizione non proprio un linciaggio, ma comunque un gesto collettivo. Il meccanismo non si è certo fermato a Edipo; le persecuzioni delle streghe sono l’esempio più noto.

Neo tribalismo e religione
Un ipotetico neo tribalismo richiederebbe che le nostre società tornino ad essere religiosamente omogenee e un rimodellamento dello Stato; non più ente terzo garante dell’ordine pubblico, della legalità e della tutela dei diritti. I tentativi trumpiani di rendere lo Stato uno strumento di chi gestisce il potere politico più che un ente regolatore, e di ascriversi la difesa dei “valori cristiani” potrebbero apparire conseguenti.
La famosa immagine creata con l’intelligenza artificiale di lui vestito da papa è una rappresentazione efficace di ciò che ci si potrebbe prefiggere con la creazione dell’ufficio per gli affari religiosi istituito alla Casa Bianca e costituito da leader religiosi a lui non solo fedeli, ma devoti. Sebbene in Giordania si conosca un caso di tribù multiconfessionale, le tribù di norma hanno un capo, una fedeltà (ponderata attraverso il consiglio degli anziani) e una fede.
La radicalizzazione dello scontro tra iper laicisiti, fautori di diritti individuali fino all’estremo ed i fautori di un riavvicinamento ai valori religiosi (aborto, famiglia, fine vita) trasforma il confronto.
Il trumpismo si  presenta come “religioso” in alcune questioni etiche e schiaccia i suoi avversari nella difesa di un liberismo al quale (come lui in realtà) sono allineati e questo renderebbe ai loro occhi gli sconfitti della e dalla globalizzazione invisibili (benché sia stato Obama a varare l’Obamacare): gli avversari di Trump spesso difendono i  diritti civili, ma a questi “sconfitti” è negato il lavoro, l’auspicata crescita sociale.

Uscita dal cristianesimo
L’assoggettamento della religione a ogni potere, anche a quello trumpiano, per me è estraneo al cristianesimo, se stiamo all’insegnamento di Gesù. Ma è molto costantiniano, se ci riferiamo alla storia antica. Si può tornare indietro? Il famoso detto evangelico “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” l’ho compreso grazie a PierPaolo Pasolini: Gesù, secondo Pasolini, non poteva proporci di diventare quasi degli Arlecchini, servitori di due padroni, ma poneva la religione come contropotere, naturalmente lontana da ogni potere terreno. Qui la “e” della frase di Gesù è per lui una “e” disgiuntiva, non congiuntiva.
Riproporre la propria visione universale e universalista è il passaggio più naturale per la Chiesa nell’oggi. C’è però la necessità di dimostrare, in un contesto ancora caratterizzato dall’esistenza degli Stati sovrani, la praticabilità di Stati con cittadini appartenenti a diverse comunità di fede.
Qui il Mediterraneo diviene un bacino di trasmissione di pregiudizi o di antidoti.  Le difficoltà mediorientali a dar vita a Stati ai quali appartengano paritariamente cittadini di diverse fedi non aiuta, perché è facile riversare su altre religioni, in particolare l’islam, una estraneità o opposizione a questa visione. Religioni nemiche, incompatibili, giustificherebbero la logicità della chiusura, della contrapposizione.
Ma la chiusura, che c’è, deriva dalla religione o dal tribalismo e dalla debolezza degli Stati? Certamente le religioni sono nate prima degli Stati moderni e nel mondo arabo, ad esempio, lo Stato vi è giunto per via colonialista all’inizio del secolo scorso. Dunque la visione religiosa è rimasta sostanzialmente comunitaria.
Il colonialismo europeo, almeno in teoria, deve favorire la nascita di Stati moderni da rendere poi sovrani. Il naturale rifiuto del colonialismo (e dei suoi metodi poco statuali, poco moderni) ha spinto il panislamismo a opporsi al colonialismo europeo opponendosi alla colonizzazione culturale europea, che vedevano nella creazione di Stati moderni, laici: opporsi al colonialismo per loro voleva dire invocare uno Stato che applicasse le leggi della loro religione.

Religioni per la cittadinanza
I guasti causati dal colonialismo sono tantissimi e ancora presenti. Il fallimento del panislamismo però non ha ancora avuto una risposta sulla natura e il carattere dello Stato, ma un enorme passo in avanti, oscurato dall’estremismo islamista e non adeguatamente apprezzato dal cristianesimo orientale, che è rimasto in gran parte pre conciliare, è stato compiuto con la dichiarazione di Abu Dhabi.
In quel testo, sorprendente e veramente rivoluzionario, papa Francesco e il preside della principale università teologica sunnita, quella di al-Azhar, l’imam al Tayyeb, scrivono: «Il concetto di cittadinanza si basa sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. Per questo è necessario impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità; esso prepara il terreno alle ostilità e alla discordia e sottrae le conquiste e i diritti religiosi e civili di alcuni cittadini discriminandoli».
Ecco l’islam che accetta la laicità dello Stato! È la laicità che oggi, nella forma di terzietà rispetto all’ipotesi neo tribalista, probabilmente dovremmo trovare il modo di difendere anche qui, comprendendo diversamente le difficoltà degli sconfitti della e dalla globalizzazione, non cercando capri espiatori di problemi comunque rilevanti.

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