Guerra perpetua, di Antonio Polito

Sul finire del Settecento, il secolo della Ragione, Kant scrisse un Progetto per la pace perpetua. Redatto sotto forma di un vero e proprio Trattato internazionale tra Stati, fu ovviamente un tentativo utopico; ma profetico di fronte al carattere assoluto, totale, ideologico, di quel nuovo modo di fare la guerra che la Rivoluzione Francese aveva introdotto nella storia d’Europa.
 Se oggi avesse un momento libero, tra un’invasione e un bombardamento, Benjamin Netanyahu potrebbe invece scrivere, peraltro senza fare alcun ricorso all’utopia, un Progetto per la guerra perpetua. È a questo che assomiglia infatti la politica che Israele sta perseguendo dopo il progrom anti-ebraico di Hamas del 7 ottobre del 2023. 
Con geometrica potenza, il governo di Gerusalemme sta infatti colpendo tutti i suoi vicini, anche quelli attualmente o potenzialmente non ostili. L’attacco ai palazzi del potere di Damasco, compiuto sei giorni fa in nome della minoranza drusa della Siria, ne è stato il sorprendente epilogo: ha preso infatti di mira un Paese in corso di stabilizzazione, sul quale gli stessi Stati Uniti puntano per «normalizzare» il Medioriente. Al punto da far sbottare qualche consigliere di Trump: «Ma questo Netanyahu è un matto…».
È come se Israele avesse deciso che è meglio avere come vicini solo stati falliti (Gaza a Sud, Libano e Siria a Nord), segnati dal caos e dalla paura, nella convinzione che così li possa controllare meglio e temere meno. Una cortina di instabilità perenne, su cui comandare appunto con il metodo della «guerra perpetua».
 Non sembra contemplata alcuna strategia finale di pace, alcun progetto di convivenza. E infatti ormai al massimo si discute di «tregue»: brevi attimi di pausa in conflitti definiti «esistenziali», e perciò destinati a durare per sempre.
Se questo è il disegno, tutto è permesso. Gli spostamenti forzati di civili, altrimenti dette «deportazioni», per esempio. Un conclamato crimine di guerra immaginato ormai su scala sempre più vasta; con l’idea di trasferire il popolo di Gaza, se non nell’Egitto che non lo vuole, allora in Libia, in Etiopia o in Indonesia, e fargli vivere così l’equivalente della «cattività babilonese» per la storia ebraica. 
Tutto è permesso. È perciò anche lecito dubitare, come ha fatto per la Santa Sede il cardinale Parolin, che il cannoneggiamento dell’unica chiesa cattolica di Gaza sia stato un semplice errore di mira.
 È molto doloroso riconoscere tutto ciò per chi in Occidente è amico di Israele, e lo è da sempre perché ha sempre riconosciuto nello Stato Ebraico una democrazia ansiosa di ottenere finalmente la pace e la sicurezza per il suo popolo; magari anche con l’uso della forza militare quando è stato necessario, ma giustificato dall’obbligo di doversi costantemente proteggere da chi da sempre lo vuole sopprimere. Non avremmo mai pensato di dover difendere Israele dall’accusa di «genocidio», dopo la prova genocidiaria del massacro di vecchi, donne e bambini da parte di Hamas; eppure, ogni giorno che passa, un amico di Israele se ne va e dice: adesso basta!
È purtroppo un fatto che il principio «territori in cambio di pace», ispiratore degli accordi di Camp David con l’Egitto e di Oslo con i palestinesi, si sia ormai capovolto nella «guerra in cambio di territori»: ogni attacco serve infatti anche a svuotare e a occupare un’altra striscia di terra, da usare come cuscinetto protettivo in una logica di perenne conflitto armato. Invece che piantare semi, ora si costruiscono trincee. 
Seppure in contesti e su scala del tutto diversa, la guerra di Netanyahu ha assunto così numerose analogie con quella di Putin in Ucraina. Una sorta di «espansionismo difensivo», come nella logica antica e paranoica di ogni impero russo, che contempla anche operazioni di pulizia etnica (il rapimento dei bambini ucraini è una forma di spostamento forzato di civili).
Non è dunque solo per il numero spropositato delle vittime a Gaza, o per i metodi disumani con cui vengono trattati esseri umani affamati e in cerca di cibo, che l’Occidente non può più tollerare la guerra di Netanyahu. È certo importante ma non decisivo stabilire se sulle persone in fila per il pane si spari deliberatamente o per errore, o se addirittura non siano affatto i soldati israeliani a sparare. Perché quella terra è comunque occupata e controllata dalle forze armate di Gerusalemme, ed è impedito l’accesso indipendente ai media; dunque tutto ciò che vi accade, il disordine che vi regna, è oggi in ogni caso responsabilità politica di Israele.
 Ciò che è invece decisivo per definire un giudizio etico-politico è che con la pratica della «guerra perpetua» il governo di Israele sta divorziando dai valori delle democrazie occidentali. Perché non usa più il conflitto armato come mezzo per ottenere un giorno la pace, ma come un fine in sé, come un metodo abituale di politica: l’unico su cui crede di poter contare per scongiurare un altro 7 ottobre.
 Paradossalmente è proprio questa disperazione di Israele sul suo stesso destino, questa assuefazione alla «guerra perpetua», che noi europei, colpevoli, complici o spettatori ignavi dell’Olocausto, non possiamo accettare.

corriere.it/opinioni/25_luglio_21/guerra-perpetua-3f6486bb-7ae4-4ad9-a02b-d8c9adf3cxlk.shtml

PRESENTANDOCI

Cercasi un fine è “insieme” un periodico e un sito web dal 2005; un’associazione di promozione sociale, fondata nel 2008 (con attività che risalgono a partire dal 2002), iscritta al RUNTS e dotata di personalità giuridica. E’ anche una rete di scuole di formazione politica e un gruppo di accoglienza e formazione linguistica per cittadini stranieri, gruppo I CARE. A Cercasi un fine vi partecipano credenti cristiani e donne e uomini di diverse culture e religioni, accomunati dall’impegno per una società più giusta, pacifica e bella.


 

 

          Con il 5x1000 e il ricavato della vendita dei libri sosteniamo:

    scuole di formazione sociale e politica, 

    sito web e periodico di cultura e politica, 

    insegnamento dell’italiano per cittadini stranieri gruppo I Care, 

    la biblioteca “Bice Leddomade”,

    incontri, dibattiti…

 

          basta la tua firma 

          e il numero dell'associazione 

          

         91085390721 


         nel primo riquadro sul volontariato

___________________________________________________________________________

Ultimi Articoli

Contribuendo

Per sostenere le nostre attività, cioè le scuole di formazione sociale e politica, questo sito web e il periodico cartaceo di cultura e politica, l’insegnamento dell’italiano per cittadini stranieri, la biblioteca “Bice Leddomade” e le altre attività di formazione culturale e sociopolitica, ti invitiamo a:

  • Donare un sostegno economico attraverso un Bonifico Bancario Cercasi un Fine APS

IBAN IT26C0846941440000000019932 BCC Credito Cooperatvo oppure CCP 000091139550 intestato ad Associazione Cercasi un fine

  • Donare il tuo 5×1000: basta la tua firma e il numero dell’associazione 91085390721 nel primo riquadro (in alto a sinistra) dedicato al Terzo Settore – RUNTS. 
  • Predisporre un lascito nel tuo testamento: hai la possibilità di aiutarci nel futuro – nel rispetto della legge, senza escludere possibili soggetti legittimari – attraverso il dono di qualcosa a Cercasi un fine (come una somma di denaro, beni mobili o immobili, una polizza di vita). Il testamento è un atto semplice, libero, sempre revocabile. Con il tuo lascito sosterrai le nostre attività. 

Grazie per quello che farai per noi.

SORRIDENDO