La rivoluzione digitale è, anche, una rivoluzione spaziale. Trasforma radicalmente i luoghi in cui viviamo e il modo in cui li viviamo. Muta le forme di tutto ciò che nello spazio prende, appunto, forma – natura e città, uomo e società, economia, democrazia e diritto – al punto da farci smarrire la nozione stessa di spazio. Questa rivoluzione spaziale, è, dunque, una rivoluzione esistenziale, di rilievo costituzionale, cioè fondativo. Per certi versi sovrumana (come i silenzi di Leopardi), per il modo in cui il contenitore spazio, ridefinito digitalmente, sembra ridefinire l’ontologia del mondo.
Lo spazio digitale, il metaverso, si estende davanti a noi come nuova terra promessa, terra interminata (soccorre ancora Leopardi), di possibilità e potenzialità infinite, al tempo stesso astratto, quasi sperimentale, come sembra suggerire l’aggettivo virtuale (ciò che è in potenza). In cui ospitare il gemello di noi e del mondo (i molti gemelli digitali), in cui specchiarci e conoscerci (trasformati in idoli, immagini, éidolon), in cui trovare rifugio dalla finitezza del mondo, dalla scarsità delle risorse, dalla concretezza del bisogno, dalla distanza e dal tempo. Un mondo a portata di dito, digitale appunto, che pare porsi, con tutto ciò che offre, nelle nostre mani e sotto il nostro controllo, plasmabile on demand. Un nuovo mondo, insomma, in cui espanderci (espandere è, appunto, il significato etimologico di spazio, sin dalla radice sanscrita spa-). Ed è proprio attraverso questa estensione che va prendendo forma la on-life (Luciano Floridi), la vita, cioè, tra reale e virtuale, secondo un percorso di sempre più stretta integrazione, finanche di ritrovata unità. Un percorso che anche il diritto insegue, donandoci una nuova identità (l’identità digitale), nuove forme di cittadinanza (la cittadinanza digitale), di eguaglianza (la cosiddetta repubblica digitale), di democrazia (la cosiddetta e-democracy), nuove forme di governo (il cosiddetto government as a platform).
Eppure, questo spazio digitale, per quel misto di infinito-astrattezza-virtualità, ci illude. Ci dà una illusione di libertà, libertà solo apparente, se è vero che allo spazio virtuale ci accostiamo per lo più come meri consumatori, come followers, come utenti di servizi customizzabili (a indicare, appunto, una personalizzazione pensata per consumatori); una illusione di liberazione, di liberazione dal bisogno, dall’altro, dal diverso, dalla scarsità delle risorse, dai limiti che solo nello spazio fisico divengono tangibili (si pensi alla logistica dell’economia virtuale); una illusione di conoscenza e innovazione, che ci rende sazi e appagati, come se, entrando nello spazio digitale, con i suoi oracoli tascabili (gli Ai Chatbot), avessimo a disposizione il sapere e “il nuovo”; una illusione di futuro, se è vero che la supposta generatività dell’Ai, di tipo probabilistico, ci tiene ancorati al passato e a ciò che da esso può essere estratto (nel senso del greco spãn, da cui spazio).
In questo attraente gioco di illusioni ci astraiamo ed estraniamo da noi e dal mondo. Vi è, infatti, qualcosa, nello spazio fisico, con la sua talvolta fastidiosa concretezza e finitezza, che ci costringe a metterci allo specchio l’uno dell’altro, allo specchio della natura, a riconoscerci reciprocamente (l’etica del volto di cui parla Lèvinas). E ancora: al senso del limite fisico dobbiamo la libertà, l’eguaglianza, la responsabilità, il rispetto, la cura. Si tratta di una astrazione/estraniazione pericolosa anche perché corrompe lo spazio fisico, le nostre città, semplicemente consumate, abbandonate, attraversate, instagrammate (la città idolo, immagine); corrompe lo spazio politico, con una politica astratta ed estraniante, non generativa; corrompe lo spazio giuridico. Del resto, è nella terra che il diritto ha la madre (Carl Schmitt): un rapporto simbiotico, che ritroviamo oggi, prepotente, nella normatività del cambiamento climatico e dei beni comuni. Un diritto, questo, che nasce da un bisogno di ri-dare forma e senso allo spazio.
Al pari dell’uomo e del diritto, anche lo spazio digitale ha bisogno di confini. Una fine e un fine. È arrivato, insomma, il tempo di una vera e propria urbanistica dello spazio digitale, capace di assicurare un centro di gravità permanente all’uomo e al diritto. Del resto, è nell’uomo, vir, che virtù e virtuale hanno il loro denominatore comune.
*Professore ordinario di Diritto amministrativo Università Cattolica del Sacro Cuore
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