Che fine ha fatto la politica interna? Non che la si debba rimpiangere, figuriamoci: soprattutto quella degli anni passati. Ma, insomma, un po’ di sano dibattito nel Paese, di scontro sulle grandi questioni, di battaglie parlamentari, di spostamenti di consensi, di suspense, sono il sale della democrazia. O almeno, lo erano. Dove sono finite tutte queste tradizioni della un tempo tumultuosa e sorprendente politica italiana?
L’argomento più eccitante degli ultimi giorni è stato l’eterno gioco dell’oca sul terzo mandato e lo ius scholae: due evergreen sui quali nemmeno i rispettivi proponenti fanno molto affidamento, ma per ammazzare il tempo (estivo) vanno sempre bene.
Certo, c’è appena stata un’epica battaglia sul diritto del lavoro, in cui la sinistra ha provato a disfare ciò che la sinistra aveva fatto dieci anni fa. Non ha interessato nemmeno un terzo degli elettori. Una volta la Cgil faceva cadere il governo con una piazza, oggi riesce a rafforzarlo con un referendum.
Pagnoncelli fotografa nei suoi sondaggi lo stesso panorama di tre estati fa: Fratelli d’Italia ha oggi il 28,2% e aveva alle elezioni il 26%, caso raro di partito che guadagna consensi mentre è al governo. Il Pd ha il 21,4 e aveva il 19,1, ma i due punti che ha guadagnato li ha persi il M5S, oggi al 13,3. Cambiando l’ordine degli addendi, il risultato dell’opposizione non cambia. Per giunta, la sua indisponibilità dichiarata a qualsiasi soluzione tecnica o di emergenza in caso di crisi, blinda ulteriormente il governo e gli assicura lunga vita.
Oddio, ci vorrebbe il «campo largo», si ripete a sinistra. Ma perfino le metafore di Bettini si sono ristrette: ora è in cerca di una più modesta «tenda per i centristi», per metterli a nanna dopo le elezioni.
Sembra «la grande bonaccia delle Antille», come Calvino definiva in un suo racconto l’immobilismo politico.
Dipenderà forse dalla modestia degli interpreti, se la politica interna è (speriamo provvisoriamente) scomparsa? Così lamentano in tanti, ma è una risposta un po’ superficiale. Non che questi di oggi brillino, ma chi ha una certa età anni ricorda di peggio.
La verità è che il mondo sta cambiando vertiginosamente, e la politica italiana è troppo piccola per contare, per fare davvero la differenza nella vita della gente. Si sta di nuovo verificando ciò che don Luigi Sturzo diceva più o meno un secolo fa: la politica estera è diventata la chiave della politica interna e di quella economica.
Da che cosa dipendono oggi infatti il Pil e l’industria, se non dal negoziato di queste ore tra Usa e Unione europea sui dazi? Se si fermeranno al 10%, e al governo già sembra un miracolo, sarà un colpo duro per settori strategici del nostro export. Senza contare il «dazio occulto» del calo del dollaro, che raddoppia e oltre il danno.
Ho appreso di recente che l’80% dei principi attivi e degli eccipienti di cui sono composti i farmaci vengono da India e Cina, e ho capito perché Xi Jinping sostiene che «l’hi-tech è il campo di battaglia principale nella lotta tra le superpotenze»: dovesse andarci male, anche le medicine scarseggerebbero, come le mascherine all’inizio del Covid.
Perfino il Ponte sullo Stretto di Messina potrebbe vedere finalmente la luce solo grazie al riarmo dei Paesi europei della Nato, finendo nella contabilità della spesa per difesa e sicurezza (così almeno Salvini la smetterà di fare il pacifista). Non aggiungo l’ovvio, per esempio l’influenza delle guerre sul costo dell’energia o sui flussi migratori verso le nostre coste. La Palestina è vicina, e il confine dell’Ucraina dista da Trieste pressappoco quanto Lampedusa.
Più o meno oscuramente, l’opinione pubblica avverte tutto ciò, e forse questo spiega come mai — sempre Pagnoncelli dixit — nel mese in cui l’America ha attaccato l’Iran con armi mai usate prima, e il Medio Oriente è stato sull’orlo di una guerra senza precedenti, le forze di governo hanno guadagnato 2,5 punti percentuali, e quelle di opposizione hanno perso altrettanto (meno 2,2%). Nonostante che, diciamoci la verità, l’Italia e la sua premier non abbiano svolto chissà che ruolo negli eventi internazionali.
Si chiama effetto «rally around the flag»: la gente si raccoglie quasi naturalmente intorno al proprio governo nei momenti di pericolo. E i dati record del nostro spread, diamo a Giorgetti ciò che è di Giorgetti, contribuiscono a garantire all’esecutivo un’immagine rassicurante e protettiva nelle tempeste mondiali. Soprattutto, quel sondaggio suona come una campana a morte per il «campo largo», perché se c’è una cosa su cui a sinistra non s’intendono è proprio la politica estera.
D’altra parte, Giorgia Meloni e il centrodestra non possono certo tirare un sospiro di sollievo: anch’essi hanno da temere per questa crescente prevalenza della politica internazionale, le incognite che nasconde e il grande caos mondiale che ne può derivare. Finora la premier ha fatto la scelta — forse non ne aveva altre — di non disturbare il manovratore, cioè Trump, al quale la lega vicinanza ideologica oltre che favore personale. Ma se le cose si dovessero metter male per l’Europa, in termini di crescita economica, sicurezza e autonomia, si metteranno male anche per l’Italia, e allora un forte vento dell’ovest potrebbe spazzare via la grande bonaccia politica italiana.
È bene che tutti ricordino che cosa accadde al governo Berlusconi, che pure aveva stravinto le elezioni del 2008 ed era guidato da un premier sulla cresta dell’onda come mai prima. Fu una crisi internazionale, quella dei debiti sovrani innescata dalla Grecia proprio quindici anni fa, ad aprirne la crisi e a determinarne la fine.
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