Si illude chi pensa che dalla guerra possa nascere la pace, di Mauro Magatti

Il bombardamento americano dei siti iraniani segna un nuovo passo verso l’avvitamento del conflitto mediorientale nel quadro di una più generale crisi internazionale. Al di là della sua portata militare immediata, questa azione apre uno scenario in cui la logica della forza rischia di diventare l’unica grammatica possibile nei rapporti tra le potenze globali. L’idea che l’uso massiccio e dimostrativo del potere militare sia in grado di garantire la pace è una tragica illusione che la storia ha ripetutamente smentito.
Ma proprio questa illusione sta tornando ad alimentare un discorso pubblico irresponsabile, in cui la guerra sembra riacquisire una paradossale legittimità. Emblematica, in questo senso, è la dichiarazione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che, nella notte del bombardamento, ha ringraziato il presidente americano Donald Trump, affermando che «la pace si costruisce con la forza». Una frase ingannevole che scambia la pace con la guerra. Perché la pace costruita con la forza non è pace: è imposizione, dominio, sopraffazione.
È la negazione stessa del significato profondo della pace, che non è la semplice assenza di guerra, ma il risultato di un processo di riconoscimento reciproco, di dialogo, di costruzione di un ordine condiviso. La pace nasce dalla fatica del confronto e dalla volontà di sciogliere i nodi che alimentano i conflitti. È un’opera lenta, delicata, spesso frustrante, ma necessaria. È frutto di diplomazia, di giustizia, di capacità di ascolto. Pensare che si possa sostituire tutto questo con l’esercizio della forza è un ritorno alla barbarie, mascherato da razionalità geopolitica. Eppure, è proprio questo linguaggio che sta tornando a dominare la scena internazionale.
Anche le parole di Donald Trump, che ha celebrato l’attacco parlando di «magnifiche armi nei cieli iraniani», rientrano in questa deriva. Si tratta di un’estetizzazione della guerra che evoca la propaganda dei peggiori regimi: la guerra come spettacolo, come dimostrazione di potenza, come coreografia tecnologica. Ma la guerra non è né magnifica né spettacolare. È distruzione, sofferenza, perdita irreparabile. Di norma sono le autocrazie ad alimentare la narrazione della “bellezza della guerra”. In un mondo pieno di tiranni che non si fanno scrupoli a usare la violenza, se anche le democrazie prendono questa strada, allora il rischio è quello di perdere la consapevolezza delle conseguenze reali di ogni guerra: città ridotte in macerie, vite spezzate, civiltà annientate.
Ciò che preoccupa è che pezzo dopo pezzo si sta smantellando quel fragile edificio giuridico costruito dopo la Seconda guerra mondiale, il cui scopo era impedire il ripetersi delle tragedie del passato. La Carta delle Nazioni Unite, il diritto internazionale, il principio del multilateralismo: tutto ciò che avrebbe dovuto rappresentare una barriera al ritorno dell’anarchia globale viene oggi sistematicamente ignorato, se non apertamente deriso. In questo momento l’Onu è diventata un fantasma che aleggia tra i comunicati ufficiali, ma che nessuno più prende realmente in considerazione.
Questo disprezzo per il diritto internazionale è tanto più grave perché avviene in un momento storico in cui il mondo è attraversato da tensioni molteplici e interconnesse. Invece di affrontare queste sfide con strumenti cooperativi, si ritorna al linguaggio delle minacce e delle rappresaglie, come se il mondo fosse una scacchiera sulla quale muovere pedine sacrificabili alla ricerca di un non meglio precisato equilibrio di potere.
Ma questa strada non porta alla stabilità. Porta, semmai, a una guerra civile globale, con una molteplicità di focolai accesi ovunque: guerre asimmetriche, terrorismo, destabilizzazione permanente, odio diffuso. E di fronte a questa prospettiva, non basteranno le “vittoriemilitari, che sempre più assomigliano a vittorie di Pirro, ottenute al prezzo di perdite enormi, materiali e morali. Occorre fermarsi. Le democrazie hanno il compito di lavorare per rompere la spirale della violenza prima che diventi irreversibile. Tenendo ben fermi alcuni principi che sono qualificanti per chi ama e vuole difendere la libertà: non esistono soluzioni semplici a problemi complessi; la sicurezza non può essere separata dalla giustizia; la pace non si costruisce sull’umiliazione dell’altro, ma sulla sua dignità riconosciuta.
Per quanto ridotti, gli spazi per cambiare rotta ci sono ancora. Ma servono coraggio politico, visione storica e senso di umanità. È tempo che la politica torni a essere l’arte del possibile, non la gestione cinica dell’inevitabile. Non c’e altra via per uscire da questa impasse che sta trascinando il mondo nel vortice della guerra. La pace vera non è il risultato della forza, ma della giustizia, della memoria, del futuro condiviso.

avvenire.it/opinioni/pagine/dalla-prima-paginauna-tragica-illusione?

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