La nuova crisi iraniana – Un altro motivo di “rupture” con gli Stati Uniti?, di Beda Romano

La nuova crisi iraniana, provocata da bombardamenti ormai congiunti israelo-americani contro le installazioni nucleari del paese, giunge mentre a Bruxelles e in altre capitali europee si riflette seriamente sul rapporto con gli Stati Uniti.
Qualche giorno fa un diplomatico del Nord Europa, proveniente da un paese tradizionalmente atlantista, parlava addirittura di rupture, sulla scia delle tante incomprensioni con l’amministrazione Trump. La stessa crisi iraniana potrebbe (dovrebbe?) contribuire a una revisione radicale dei rapporti transatlantici.
L’Iran fu per molto tempo una chasse gardée di Londra, finché negli anni 50 l’allora primo ministro Mohammad Mossadegh decise di nazionalizzare d’emblée una società petrolifera con capitale misto, iraniano e britannico, dinanzi alla scelta inglese di respingere le richieste di Teheran di rinegoziare i termini del contratto.

Defenestrazione
Il premier fu quindi oggetto di una defenestrazione organizzata dagli inglesi e dagli americani, che riportò alla guida del paese Mohammad Reza Pahlavi, stretto alleato dell’Occidente in piena Guerra Fredda.
Lo Scià promosse certamente una modernizzazione del paese, attirando investimenti internazionali grazie alla vendita di petrolio e gas. L’Iran tuttavia non aveva ai tempi né i quadri tecnici né le competenze amministrative per gestire correttamente la manna finanziaria che proveniva dall’estero.
Lo shock provocò inflazione, disoccupazione ed enormi differenze sociali nella popolazione locale, gettando i semi della rivoluzione che scoppiò alla fine degli anni Settanta.
Professore di teologia a Qom e capo religioso della comunità sciita dal 1962, Ruhollah Komeyni tornò dall’esilio francese nel 1979, alla guida di una rivoluzione islamica, che ebbe come primo e clamoroso gesto l’occupazione dell’ambasciata americana per oltre un anno.
Da allora il rapporto del paese con l’Occidente cambiò radicalmente. Il clero sciita fece degli Stati Uniti l’oggetto principale delle sue omelie, accusando il paese di avere protetto il regime corrotto e violento dello Scià e di promuovere consumismo, edonismo ed erotismo.
Agli osservatori iraniani i virulenti attacchi anti-americani dell’establishment religioso iraniano avevano soprattutto l’obiettivo di mantenere accesa la fiamma del nazionalismo persiano dinanzi alle diverse forme di colonialismo di cui era stato oggetto il paese nei secoli: ottomano, britannico, russo e sovietico.
Poco importa. Nel frattempo, l’America aveva perso una pedina importante nel Medio Oriente. Non per altro, da allora il Pentagono aumentò visibilmente la sua presenza nella regione.
Secondo lo European Council on Foreign Relations, il Pentagono conta 19 basi in otto paesi: il Bahrain, l’Egitto, l’Irak, la Giordania, il Kuwait, il Qatar, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti.
Da allora, tra alti e bassi, il rapporto tra Teheran e le cancellerie occidentali è andato peggiorando. In Occidente, il programma nucleare del paese fu rapidamente considerato un segnale di minaccia. Pochi si chiesero quanto preoccupante fosse agli occhi degli iraniani la presenza militare americana intorno all’Iran. Senza dimenticare che il paese è al centro di una corolla di stati nucleari: Israele, l’India, il Pakistan, la Russia, la Cina.
C’è di più. Fin dal 2002 l’allora presidente George W. Bush aveva definito l’Iran uno “Stato canaglia” (rogue state in inglese), insieme all’Irak e alla Corea del Nord. Un anno dopo le truppe americane avrebbero occupato l’Irak. Da allora, c’è chi potrebbe sostenere che dopo tutto la deterrenza nucleare sia stata utile a Pyongyang per non fare la stessa fine di Baghdad.
Sappiamo che l’Iran firmò un accordo nel 2015 che ha permesso il controllo internazionale sul suo programma nucleare. Sappiamo che nel 2018 Donald Trump stracciò l’intesa (definendola “il peggior accordo del mondo”). Il paese ha certamente fatto progressi verso l’eventuale costruzione di una bomba, ma l’Agenzia internazionale per l’Energia atomica ha sottolineato come per ora non ci siano segnali che concretizzino questo potenziale disegno.

Stato canaglia
In ultima analisi, la prospettiva storica offre della crisi iraniana una interpretazione in chiaroscuro, nella quale i torti degli uni e le ragioni degli altri appaiono improvvisamente meno evidenti.
Consapevole di questa situazione, qualche giorno fa un amico mi ha chiesto perché tanti paesi europei si stanno schierando così apertamente contro l’Iran – il caso della Germania salta agli occhi.
Al mio interlocutore ho elencato rapidamente alcuni possibili motivi: Perché sono schiacciati sulle posizioni americane? Perché sono ostaggio di Israele, e del loro senso di colpa per l’Olocausto? Perché vedono nella guerra contro l’Iran un modo per indebolire l’alleato russo nella guerra in Ucraina? Perché non capiscono un nazionalismo iraniano che affonda le sue radici nella Persia millenaria? O semplicemente perché c’è voglia di presenzialismo dopo la decolonizzazione del Vicino Oriente mezzo secolo fa?

La questione posta dal mio conoscente non è banale.
Dopotutto la questione iraniana è lontana, e una posizione neutrale se non addirittura di critica contro Gerusalemme e Washington dovrebbe essere l’atteggiamento più saggio da parte europea. Gli attacchi israeliani e americani contro l’Iran anziché prevenire forme di proliferazione dell’arma nucleare potrebbero accentuare il desiderio di alcuni paesi di dotarsi della bomba atomica – seguendo l’esempio della Corea del Nord. Per non parlare del rischio di ritorsioni terroristiche e di caos nel paese, come è avvenuto dopo altri interventi americani (Irak, Afghanistan, Libia).
In questo senso, a pochi giorni da un vertice della Nato, previsto a L’Aja il 24-25 giugno, ho la sensazione che la crisi iraniana sia per l’Europa una nuova conferma della necessità di rivedere drasticamente il suo rapporto con Washington, dentro e fuori l’Alleanza atlantica.

bedaromano.blog.ilsole24ore.com/2025/06/22/la-nuova-crisi-iraniana-un-altro-motivo-di-rupture-con-gli-stati-uniti/

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