Costituzione e partecipazione: il dovere di esserci, di Maria Elisa D’Amico

L’8 e 9 giugno
I cittadini e le cittadine italiane saranno chiamati ad esprimersi su 5 quesiti referendari che riguardano la materia del lavoro e della cittadinanza. Più precisamente, i primi quattro quesiti referendari proposti dalla CGIL mirano ad abrogare parti del Jobs Act, intervenendo su licenziamenti e precarietà: si chiede il ripristino della reintegra per i licenziamenti illegittimi (primo quesito), l’eliminazione del tetto di 6 mensilità per l’indennizzo nelle piccole imprese (secondo quesito), la limitazione dell’uso dei contratti a termine (terzo quesito) e l’estensione della responsabilità alle imprese appaltatrici in caso di infortuni sul lavoro (quarto quesito). L’ultimo quesito propone di ridurre da 10 a 5 anni il requisito di residenza per ottenere la cittadinanza per naturalizzazione (quinto quesito).

La “fuga”
Purtroppo, come tristemente accade ormai da molto tempo, il dibattito intorno ai quesiti, il confronto fra le diverse idee e posizioni non è praticamente esistito e alcuni partiti politici hanno apertamente fatto una campagna “per l’astensione”. In queste mie riflessioni, vorrei concentrarmi sulle conseguenze costituzionali, in termini di qualità della democrazia, di questa “fuga” dal referendum, e anche fare qualche considerazione ulteriore sulla responsabilità di tutto questo, che viene da lontano e non può essere semplicisticamente addebitato soltanto alla “politica” o a qualche forza politica.

Il referendum
E’ disciplinato dall’art. 75 della nostra Costituzione ed ha carattere soltanto “abrogativo”, cioè è nato per eliminare totalmente o parzialmente norme primarie. Ci fu un’aspra discussione in Assemblea costituente, perché soprattutto il gruppo comunista era avverso rispetto alla possibilità che il “popolo” potesse eliminare una legge votata dai suoi “rappresentanti” e proprio per questo si decise di inserire un quorum di partecipazione per la sua validità: almeno il 50% degli aventi diritto al voto, un quorum che per l’affluenza dell’epoca serviva semplicemente a evitare un colpo di mano di una minoranza popolare (e magari anche politica). Si decise anche di vietare che il referendum potesse essere svolto su materie troppo esposte ai “sentimenti popolari”, come quella penale (amnistia e indulto), tributaria, e su materie che necessitano tecnicamente della forma della legge (la legge di bilancio e la legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali). Per un caso, alcuni dicono un errore materiale non corretto, non fu inserito il divieto per le leggi elettorali. Solo dopo più di vent’anni, con la legge n. 352 del 1970, di attuazione dell’art. 75 Cost., l’Italia fu in grado di assicurare questo strumento importante per la nostra democrazia costituzionale: una democrazia, ricordiamolo bene, che si qualifica come “rappresentativa”, ma con un innesto di democrazia “diretta”, come è appunto il referendum abrogativo. In effetti, le prime tornate referendarie sono stati grandi momenti democratici, nei quali il popolo italiano si è sfidato su principi di una società in cambiamento: dal referendum sul divorzio, nel 1974, a quello sull’aborto, nel 1981, ai referendum successivi sul nucleare o sul finanziamento pubblico ai partiti.

Le radici del disinteresse
Cosa è successo in questi quarant’anni e perché progressivamente si è perso interesse per una consultazione democratica come quella referendaria? Indubbiamente tanti fattori hanno concorso a questo brutto esito per la qualità della nostra democrazia: la normalizzazione di un invito a “non andare a votare”, al di là della discutibile posizione da parte dei partiti politici che la cavalcano, quei partiti che dovrebbero ai sensi dell’art. 49 Cost. concorrere a determinare la politica nazionale e non incentivare il mancato rispetto di norme costituzionali, è il plastico segnale della atrofizzazione di questo istituto.

L’astensione
Da un punto di vista costituzionale, l’art. 75 Cost. non autorizza lo sfruttamento dell’astensione come modo per avvantaggiare chi è contrario all’abrogazione di una legge: ovviamente non lo vieta, ma ritenere che ciò sia pienamente legittimo, e soprattutto opportuno, è proprio sbagliato. Per altro, occorre tenere a mente che “chiunque investito di un pubblico potere” si adoperi ad indurre gli elettori all’astensione dalle urne è passibile di sanzione penale a norma dell’art. 98 del d.p.r. n. 361 del 1957 (sanzione applicabile anche per le tornate referendarie: art. 51 della legge n. 352 del 1970). La perdita di interesse per il voto al referendum però ha radici lontane e vede anche una responsabilità della nostra Corte costituzionale, che a partire dal 1978, in sede di giudizio di ammissibilità, ha esteso i suoi poteri per “contenere” il voto referendario e i numeri delle richieste, spesso con giudizi discutibili e molto discrezionali. La Corte ci dice nel 1978 che non si può trasformare uno strumento di democrazia diretta, che dovrebbe essere eccezionale e specifico, ai sensi dell’art. 75 Cost., in un improprio strumento di democrazia rappresentativa. Tuttavia, spesso, i giudizi della Corte hanno colpito proprio quei referendum di maggiore interesse e attrattività che avrebbero trascinato anche i votanti sugli altri: pensando a un episodio recente, ricordiamo le discutibili pronunce che hanno negato il voto sull’omicidio del consenziente, in tema di fine vita, e sull’uso personale della cannabis. Quesiti, questi, che interessavano tante persone e che erano stati promossi anche da moltissimi giovani.

Dalla parte della Costituzione
Tornando ai nostri referendum, che dovrebbero toccare tutti da vicino, attenendo al godimento dei diritti fondamentali delle persone, quello sulla cittadinanza, e al volto del nostro Stato sociale e delle regole del mercato del lavoro, spaventa, per la qualità della nostra democrazia, il silenzio assordante dei mezzi di comunicazione, anche dei social, accompagnato da tiepide proteste anche delle forze politiche che dovrebbero sostenerne le ragioni. Forse che tutti hanno paura di “perdere” qualcosa, chi si oppone a questi referendum e chi li sostiene, ma teme l’effetto incrociato dell’astensione politica con quella fisiologica. Insomma, quale che siano le motivazioni e il quadro generale, sarà poi responsabilità individuale quella di decidere, con un sì o con un no, da quale parte stare. Perché la Costituzione, come diceva Calamandrei, può rimanere un “pezzo di carta”, se non viene alimentata quotidianamente da ognuno di noi.

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