Donald Trump vuol fare cassa, ma adesso è il deficit il suo tallone d’Achille, di Federico Fubini

Ieri sera Donald Trump ha ospitato alla Casa Bianca i principali «investitori» nel suo memecoin. Questa pseudomoneta digitale, lanciata nei giorni del suo ritorno al potere, è solo uno dei modi che ha inventato il presidente di monetizzare la propria carica ufficiale mentre la esercita. Solo l’annuncio dell’asta per la cena di ieri ha generato 150 milioni di dollari in volumi d’acquisto sulla criptovaluta trumpiana (oltre a quattro miliardi di perdite per centinaia di migliaia di persone che ci hanno creduto). Ma prima di sedersi al tavolo con i fortunati vincitori della lotteria, il presidente aveva — nell’ordine — espulso decine di migliaia di stranieri da Harvard e poi «raccomandato» un aumento dei dazi su 600 miliardi di dollari di prodotti europei, fino a livelli superiori di venti volte rispetto a tre mesi fa. Poche ore prima lo stesso Trump invece era riuscito a far passare alla Camera dei rappresentanti un taglio delle tasse in gran parte a favore dei più ricchi che aggiunge cinquemila miliardi di debito per gli Stati Uniti, ma tassa le rimesse degli immigrati e stabilisce un prelievo supplementare fino al 20% sui guadagni sugli investimenti effettuati in azioni o obbligazioni americane da parte di risparmiatori che vivono all’estero. Italiani inclusi.

Dollaro in calo del 2% 
L’agenda del presidente è così densa che si fatica a capire a cosa si debba esattamente ciò che è sotto gli occhi di tutti: il dollaro sta cadendo nel modo più rapido dai giorni della tempesta del «Liberation Day». Nella settimana ha perso quasi il due per cento sulle principali monete del sistema internazionale. Grandi masse di denaro stanno tornando a spostarsi lontano dall’America, come se i loro padroni cercassero un po’ di distanza di sicurezza. Che tipo di sintomo può essere questo? È ovvio che il principale indiziato sia l’ultimo giro di valzer di Trump sui dazi. Un mese e mezzo fa il presidente aveva sospeso le sue tariffe «reciproche» al 20% contro l’Europa, dimezzandole in modo da dar tempo fino al 9 di luglio per arrivare a un compromesso. Ieri eravamo appena a metà della tregua, le trattative erano appena abbozzate, quando è arrivato l’annuncio di nuove barriere oltre il doppio più punitive di quelle del «Liberation Day». Fra Washington e Bruxelles in queste settimane dev’essere andato in scena un dialogo dell’assurdo. Gli emissari delle due parti devono essersi parlati in lingue diverse di argomenti diversi, illudendosi di parlare delle stesse cose.

Stili negoziali opposti
Gli europei sono funzionari specializzati, si sono seduti al tavolo disarmati e operano con un software che risale agli anni ‘90; per loro un negoziato sugli scambi è un processo altamente tecnico, giuridico fino all’ultimo comma, sempre con l’obiettivo di arrivare a un accordo di libero scambio. Gli emissari di Trump invece sono il loro opposto antropologico. Sono delegati personali del presidente e per loro il negoziato è una prova di forza, la pistola sempre sul tavolo dello studio ovale; vogliono smantellare le tasse sul Big Tech come quella in vigore anche in Italia, disinnescare le regole di Bruxelles sul digitale, strappare un impegno dei grandi Paesi europei a tagliare fuori i prodotti cinesi. Non puntano a un accordo di libero scambio, ma un passo indietro politico dell’Europa. 
Era inevitabile che il negoziato finisse nelle secche. Eppure il dollaro si sta comportando in modo anomalo comunque, perché in questi casi a perdere terreno dovrebbe essere la moneta del sistema che si trova penalizzato dai dazi. Invece ieri l’euro si è impennato sul biglietto verde.

Deficit mai visti nel dopoguerra
L’altra motivazione di Trump nel riaprire la guerra commerciale aiuta a capire perché. In giugno e luglio il presidente deve far passare al Senato il suo pacchetto di tagli alle tasse e sa già che non sarà facile. Il provvedimento garantisce che per i prossimi quattro anni gli Stati Uniti viaggeranno con deficit pubblici mai visti nel dopoguerra, almeno non così a lungo e non al di fuori dalle recessioni. Il Tesoro americano deve raccogliere ogni anno duemila miliardi di prestiti in più, quasi la metà del nuovo risparmio che si crea nel mondo. È dunque probabile che Trump abbia annunciato i dazi di ieri solo per poter dire che parte dei soldi verranno da lì. Per ora non sta funzionando, perché le entrate fiscali in più grazie alle tariffe già in vigore si stanno rivelando minime se non inesistenti. A Trump non importa, a lui interessa trovare degli argomenti per convincere i senatori a votare i suoi tagli alle tasse. Ma l’intera operazione rivela in trasparenza la vera vulnerabilità del suo intero progetto politico. Non è certo solo questo presidente ad aver aperto la voragine di bilancio degli Stati Uniti, ma lui ha dato il suo contributo nel 2017-2021 e ora continua a scavare. Il resto del mondo gli sta dicendo che c’è un limite, persino per l’America: il dollaro scende e i rendimenti dei titoli americani continuano a salire in modo anomalo anche loro, perché gli investitori esteri esitano più di prima a comprarli.

Istituzioni umiliate
Servirebbe credibilità, per navigare un passaggio così delicato. Invece alla Casa Bianca c’è un uomo che non si fa problemi nell’usare la carica per arricchirsi; che umilia le istituzioni, sega l’albero della crescita attaccando le migliori università o tagliando drasticamente i fondi in ricerca e sviluppo; che continua a minacciare o ad alzare muri sul resto del mondo con totale imprevedibilità. Difficile che alla lunga possa finire molto bene, oltre il muro che già si profila all’orizzonte. Ma per l’America questa volta.

corriere.it/economia/finanza/25_maggio_24/donald-trump-deficit-3c0a6c5c-d816-46e4-a49f-2ce6a709axlk.shtml

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