Manifesto per il rinascimento della Silicon Valley, di Andrea Falco Profili

Il mondo, col dipanarsi effettivo del XXI secolo, sembra avvitarsi su sé stesso in una spirale di incertezze e di antiche paure riesumate. Dalle pianure ucraine alle tensioni nel Mar Cinese Meridionale, un senso di precarietà si diffonde. L’America stessa, nel secolo scorso perno indiscusso di un certo ordine internazionale, appare internamente frammentata. Non è un mistero che il consenso attorno a Donald Trump, o comunque il clima politico che ne consenta la perdurante influenza, sia sintomo di un malessere ulteriore che affonda le radici in promesse mancate e in una fiducia erosa.
Eravamo, fino a pochi decenni fa, figli di un’epoca che guardava al futuro con la tracotanza dei visionari. La corsa allo spazio, con l’impronta di Armstrong sulla Luna, che oltre ad essere una monumentale vittoria tecnologica, era il sigillo di un patto tra l’ingegno umano, volontà politica e ambizione nazionale. Il Concorde fendeva i cieli, simbolo e promessa di un mondo più veloce e interconnesso, mentre Marte, nelle fantasie alimentate dalla scienza, sembrava una colonia a portata di XX secolo. Poi, qualcosa si è inceppato. La frontiera spaziale si è ritratta, Marte è rimasto un sogno distante, il Concorde è finito nei musei, lasciandoci a voli più lenti e mettendo fine all’esperimento del supersonico civile, un passo indietro nella velocità del progresso percepito e reale. Le auto volanti, simbolo di un futuro da romanzo fantascientifico, sono rimaste confinate lì, tra le pagine ingiallite, insieme a tante altre meraviglie che, come lamentava David Graeber, ci aspettavamo e non sono arrivate.
Un senso di stallo, se non di regresso, ha accompagnato la coscienza collettiva nel ventunesimo secolo. Ciò che manca non è la tecnica, ma la volontà. Siamo entrati in quella che potremmo chiamare l’era del progresso anestetizzato: tutto avanza, nulla si muove. Tra queste ambizioni frustrate di un Occidente che sembra aver smarrito la bussola, Alexander Karp, CEO di Palantir Technologies, congiuntamente a Nicholas Zamiska ha pubblicato le sue riflessioni in un volume dal nome profetico: The Technological Republic. L’America, per i due autori, appare come un Leviatano tecnologico che ha preferito ripiegarsi su sé stesso, cullandosi nelle comodità di un consumismo digitale piuttosto che affrontare le grandi sfide del tempo. Karp e Zamiska avanzano una terapia d’urto necessaria per risvegliare questa potenza dal suo torpore autoindotto.
La tesi centrale è che la Silicon Valley, il cui scopo avrebbe dovuto essere quello di proiettarci nel domani, avrebbe smarrito la via. Invece di proseguire la storica collaborazione con lo Stato – quella che nel dopoguerra generò rivoluzioni come Internet e il GPS – ha preferito una deriva introspettiva, focalizzandosi su “prodotti di consumo”, su app per la condivisione di foto e interfacce di chat che, pur generando profitti colossali, hanno contribuito a quello che Karp definisce un divario di innovazione rispetto alle vere necessità strategiche. Mentre lo Stato si ritirava dalla ricerca di frontiera, la Valley si disinteressava del “bene comune”, producendo un’élite ingegneristica spesso scollegata da un senso di scopo nazionale, se non apertamente ostile al lavoro con le istituzioni politiche, specialmente in ambito difensivo. Si tratta di un vero e proprio “svuotamento della mente americana”, parafrasando gli autori, che deriverebbe da un certo abbandono delle convinzioni forti. Vengono citate figure come Pauli Murray che, nonostante l’aver subito la segregazione, sostenne il diritto di segregazionisti come George Wallace di parlare a Yale, rappresentando per gli autori un esempio tra i tanti di un coraggio intellettuale oggi introvabile. Al posto di ciò esisterebbe oggi una classe dirigente – accademica, politica e tecnologica – timorosa e legalistica, più preoccupata della propria sopravvivenza che dell’articolazione di una visione autentica. L’avvento dell’Intelligenza Artificiale, con il suo potenziale distruttivo e le sue incognite, non fa che soffiare sull’urgenza di rompere con il paradigma attuale. Mentre l’Occidente dibatte sull’etica dei chatbot e si preoccupa della “correttezza” del loro linguaggio, avversari geopolitici come la Cina avanzano nello sviluppo di IA con applicazioni militari, dal riconoscimento facciale agli sciami di droni. Karp e Zamiska prevedono che l’era atomica giungerà presto al termine, al suo posto sorgerà una nuova era di deterrenza basata sull’IA e la sua integrabilità nei sistemi d’arma. L’esitazione, in questo contesto, è un pericolo mortale.
La soluzione proposta è un nuovo patto tra l’industria del software e lo Stato. Silicon Valley avrebbe un obbligo affermativo di partecipare alla difesa della nazione e all’articolazione di un progetto nazionale, mettendo il suo potenziale innovativo al servizio delle sfide più pressanti, inclusa la sicurezza. Non si tratta di un appello nazionalista, ma del riconoscimento che “l’esperimento americano fondato sulla libertà e la prosperità” che ha permesso l’ascesa della Valley, dipende da un ordine democratico che va attivamente difeso. In secondo luogo, occorre l’adozione diffusa di quella che viene definita la mentalità ingegneristica: una visione ispirata a sistemi decentralizzati come gli sciami d’api o alle dinamiche dell’improvvisazione teatrale, privilegiando la flessibilità e la resistenza al conformismo (vengono citati gli esperimenti sull’obbedienza di Milgram a tal proposito). Si dovrebbe ambire ad un pragmatismo spietato focalizzato sui risultati e una cultura che valorizza il punto di vista del fondatore, la sua capacità di discernimento e di giudizio, anche quando impopolare. La vicenda di Palantir stessa, con la sua controversa ma alla fine vittoriosa battaglia legale per fornire software all’esercito statunitense, è offerta come un esempio di questa mentalità all’opera, contrapposta alla miope Valley che nel frattempo si concentrava su intrattenimento e profitto immediato.
Infine, e forse è questo il nucleo più radicale della proposta, si auspica una vera e propria ricostruzione dell’identità collettiva. Di fronte allo svuotamento prodotto da decenni di critica all’idea stessa di un progetto nazionale o di una “civiltà occidentale”, Karp e Zamiska argomentano per la necessità di recuperare grandi narrazioni, un senso di scopo comune che trascenda l’individualismo del mercato. La trattativa che The Technological Republic propone è dunque complessa: da un lato, la Silicon Valley deve accettare la sua responsabilità verso la collettività; dall’altro, lo Stato e la società devono imparare a superare un certo luddismo, superando la rigidità burocratica e la paura del rischio. Ma tutto questo sarà vano senza una mitologia condivisa, un grande racconto nazionale capace di restituire all’ambizione una sua necessità. La Silicon Valley conservatrice si sente figlia di una civiltà che ha smesso di raccontarsi, o che lo fa solo in tono minore, col timore di sembrare arrogante. Il tempo dei grandi racconti non è finito e la repubblica tecnologica si prefigge di forzare una nuova traiettoria. Perché la posta in gioco è già oltre il dominio tecnico, e tocca la sensatezza del sistema Occidente stesso. O almeno, così racconta la Valley.

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