Se ancora ne abbiamo voglia e ci interroghiamo sulle procedure con le quali vengono “scelti” e residenti dei vari CPR, possiamo scoprire che molti (circa il 20%) provengono dal settore carcerario, una migrazione dovuta anche al sovraffollamento delle carceri in Italia.
La difficoltà che emerge nel riconoscimento dello status di richiedente asilo nei confronti dei migranti presenti nei CPR sta principalmente nella confusione legislativa e normativa che avvolge tutto il mondo dell’accoglienza.
Soffermandoci sulle ultime direttive per questi centri, vediamo che il tempo di permanenza (o meglio dire di detenzione) è passato, negli anni, dai 30 ai 180 giorni con un decreto ad hoc emanato dal Governo per avere il tempo di organizzare le varie deportazioni nei Paesi di provenienza o di origine dei migranti (o magari per scoraggiare i futuri migranti in procinto di prendere il mare con destinazione Italia).
I rimpatri realmente effettuati sono solo il 10% del totale delle persone colpite da decreto di espulsione (a meno che non ci si chiami Almasri e non si venga rimpatriati con un volo di stato).
Questa difficoltà è data soprattutto dal riconoscimento di Paesi sicuri in riferimento alle nazioni di provenienza dei migranti.
Altro nodo burocratico di inciampo è quello relativo al recupero in acque internazionali dei naufraghi da parte di unità della nostra Marina Militare.
Nel momento stesso che una persona tocca il ponte di un qualsiasi vascello militare che batte bandiera italiana, mette piede in territorio italiano.
A quel punto dovrebbero iniziare le procedure di riconoscimento personale di ogni naufrago: Paese di origine, età e motivo per il quale si è lascito il proprio Paese.
Ma molti di questi controlli vengono effettuati dal personale di bordo che, chiaramente, non ha specifiche professionalità per espletare riconoscimenti di etnia, esami per stabilire se un migrante è minore o meno, se ha subìto torture anche psicologiche nel Paese di partenza.
È chiaro che in tutta questa confusione, molti avvocati che si dedicano al riconoscimento dei diritti dei migranti, mediante un ricorso anche ad un giudice di pace territoriale competente può impugnare il provvedimento di trattenimento del proprio assistito.
Se poi si credeva di risolvere il tutto mediante l’esternalizzazione di un centro per il trattenimento di richiedenti asilo (880 posti), un Cpr (144 posti) ed un penitenziario (20 posti) lontano dal territorio italiano (leggi Albania), le contraddizioni aumentano in maniera esponenziale fino a spingere il nostro esecutivo a decreti specifici per il riconoscimento di Paese sicuro laddove sono in corso conflitti etnici oppure verso autarchie che non riconoscono la libertà di espressione, di ideologia, di natura sessuale.
E poco importa se, in quasi un anno di attività il centro è servito solo a delocalizzare forze di polizia penitenziaria, agenti di pubblica sicurezza e accogliendo solo una sessantina di migranti in tutto, compresi quelli ai quali è stata offerta una crociera di andata e ritorno in Albania.
Già perché anche di fronte ad un decreto di espulsione da attuare, il migrante deve far ritorno in Italia per dare seguito al provvedimento.
Avevamo fatto cenno, nei fogli precedenti, dei costi di manutenzione e di gestione dei vari CPR disseminati in Italia e non solo.
Negli ultimi tempi c’è stata una corsa all’innalzamento della spesa di adeguamento di questi centri in relazione alla loro sicurezza (in parole povere, di come rendere i CPR del tutto simili ad istituti penitenziari), trasformandoli in piccole isole di detenzione dove far confluire anche parte degli stranieri detenuti nelle carceri propriamente dette.
Il primo risultato ottenuto è stato quello di “criminalizzare” i CPR laddove, per la maggior parte dei casi, l’unico crimine commesso dai reclusi è quello di essere arrivato in Italia attraversando quell’immenso cimitero liquido che è diventato il Mediterraneo e, quindi, di non avere documenti validi; oppure soggetti ai quali è stato negato il permesso di soggiorno. La promiscuità con altre persone passate in giudicato, magari per spaccio o per delitto verso il patrimonio o per altri reati legati a danni a persone, indebolisce il senso stesso della reclusione visto come tempo per un ravvedimento o una rieducazione verso il rispetto delle regole sociali.
Rendere eterogeneo il tessuto sociale all’interno dei CPR facilita moltissimo il proselitismo criminale nel suo interno, visto che gran parte dei migranti bloccati nei centri, dopo aver ricevuto il decreto di espulsione, ha 15 giorni per lasciare il Paese volontariamente, altrimenti viene accompagnato alla frontiera dalle forze dell’ordine. Ma questo avviene solo in pochissimi casi, laddove cioè vi sia stato un trattenimento del migrante nella struttura (cosa che accade raramente se non per coloro che hanno condanne per violazioni contro il patrimonio o contro la persona).
Aprire scenari di accoglienza e di integrazione sfruttando risorse altrimenti impiegate per costruire strutture di abbruttimento umano è l’auspicio che gran del mondo migrante si augura da un Paese che vede ogni anno quasi 200.000 partenze di connazionali con gli stessi sogni, gli stessi motivi e le stesse speranze che guidano coloro che, letteralmente si “imbarcano” nella grande avventura della migrazione.
Ma questo è un altro tema scottante per la nostra società!
[Direttore ufficio Migrantes dell’Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie, Margherita di Savoia]