Il quesito referendario dell’8-9 giugno relativo alla durata della residenza richiesta per acquisire la cittadinanza italiana (da 10 a 5 anni) è l’occasione per una riflessione sul significato di questo fondamentale istituto delle democrazie moderne, centrale nella regolazione dei rapporti dello Stato con gli individui. Grazie alla cittadinanza, questi si emancipano dalla condizione pre-moderna di sudditi: possono concorrere alle decisioni con il voto, ricevendo un incentivo importante a identificarsi con la comunità nazionale e ad assumere i doveri relativi. La cittadinanza diventa così il perno dell’appartenenza e della solidarietà nazionale: il collante che tiene insieme i membri della nazione, li fa sentire solidali fra loro, e li distingue dai non-cittadini. Di qui deriva anche l’ambiguità della cittadinanza, che funziona come un confine interno: include chi fa parte della nazione, mentre esclude chi non ne fa parte. L’adozione di una lingua comune e propria, l’educazione obbligatoria, a cui si sono aggiunti nel ’900 l’espansione del welfare e i programmi radiotelevisivi che hanno diffuso la lingua comune: tutto questo ha contribuito a consolidare il legame tra lo Stato-nazione e i suoi cittadini.
Gli immigrati pongono una sfida a questa architettura sociopolitica. Pur risiedendo sul territorio stabilmente e concorrendo all’economia nazionale (2,4 milioni gli occupati regolari in Italia), appartengono a un altro Stato. Prima o poi ricongiungono le famiglie o ne formano di nuove, generano dei figli, li mandano a scuola.
Peggio ancora, dal punto di vista dei propugnatori di un’identità nazionale nitida e indiscussa: possono unirsi con persone del luogo, dando vita a delle famiglie miste. Avanza la mescolanza, si offusca la distinzione tra cittadini non cittadini. Inevitabilmente, almeno sotto regimi democratici, gli immigrati accedono a diversi diritti: in primo luogo quelli sociali, derivanti dal lavoro dipendente. Poi quelli civili, come il diritto di culto e di associazione. Rimangono invece esclusi dai diritti politici, finché non riescono a ottenere quella che con un termine curioso si definisce “naturalizzazione”.
La mancanza dei diritti politici pone un problema, che sotto regimi democratici è diventato piuttosto ingombrante: sul territorio nazionale vivono insieme, soggetti alle stesse leggi ed esposti – fra l’altro – allo stesso prelievo fiscale, individui che hanno un diverso grado di potere nei confronti di quelle leggi e di quelle norme fiscali: gli uni, grazie alla cittadinanza nazionale, possono modificare con il voto le leggi a cui devono sottostare, gli altri possono solo subirle, o eventualmente trasferirsi altrove. Secondo Michael Walzer, si tratta della più comune forma di tirannia: quella per cui alcuni decidono per tutti. Gli Stati hanno elaborato condizioni e procedure più o meno inclusive per regolare questo squilibrio.
Persiste il primato della regolazione nazionale, anche nell’ambito dell’Ue. Ma nell’accesso alla cittadinanza si è diffusa nella maggioranza dei paesi dell’Ue a 15 la condizione dei cinque anni di residenza, su cui si è recentemente allineata la Germania, raggiungendo Francia, Portogallo, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo, Svezia, Irlanda. Appena più restrittive sono Austria e Finlandia, che richiedono sei anni. Fuori dall’Ue, la regola dei cinque anni vale nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Anche laddove i tempi sono superiori – come in Spagna, Danimarca e Grecia –, vigono significative eccezioni. Si applicano inoltre pressoché ovunque condizioni più favorevoli per i minori, specialmente quando sono nati sul territorio. La disuguaglianza sul piano politico tra cittadini nazionali e immigrati è poi mitigata in diversi paesi dall’accesso al voto locale.
Il referendum al fondo è una domanda che poniamo a noi stessi: se vogliamo rinchiuderci in un’identità nazionale rivolta al passato, oppure declinarla al futuro, aperta a una società multietnica che chiede di essere ricomposta in un orizzonte condiviso.
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