In Brasile le lingue sono un’arma di resistenza, di Bruno Meyerfeld

Nda’evei celular jaiporu nhanhembo’ea py”. L’avviso è ben visibile, scritto in lettere maiuscole su un cartello rosso e bianco. È accompagnato dal disegno di un cellulare e dal simbolo che indicavietato”. Il messaggio è chiaro: in questa scuola in un prefabbricato nella zona rurale di Marica, trenta chilometri a est di Rio de Janeiro, l’uso dei telefonini è proibito. Curiosamente, non c’è la traduzione in portoghese. Funziona così a Ka’Aguy Hovy Pora, il villaggio della “bella foresta verde”, in guaraní. I 250 abitanti usano solo la lingua nativa.
“Nella mia testa tutti i pensieri sono in guaraní, anche i miei sogni”, dice Julia, una ragazza di 17 anni dai capelli neri che ci saluta con un Javy ju, buongiorno. Come gli altri ragazzi della zona, Julia ha studiato nella scuola bilingue portoghese-guaraní del villaggio, che segue gli alunni dalla materna alla elementari. “I bambini e le bambine sono alfabetizzati in guaraní. È la lingua in cui studiano la matematica e la geografia”, dice Amarildo Vera Yapua, 34 anni, uno dei sei amministratori della comunità. Anche se alcune parole sono difficili – yy, acqua, si pronuncia come una i molto chiusa – imparare il guaraní “è facile e veloce”, assicura Yapua.
Portatrici di cultura, di memoria e spiritualità, in Brasile le lingue ancestrali sono al centro della battaglia dei nativi, insieme alla difesa della terra e dell’ambiente. “Per noi la lingua è un’arma. È il nostro arco e le nostre frecce”, spiega Yapua. Se ne è parlato molto durante l’Acampamento terra livre, il più grande raduno indigeno del Brasile, organizzato dal 7 al 10 aprile a Brasília e a cui hanno partecipato più di ottomila persone dei popoli originari arrivate da tutto il paese.
Nei luoghi dedicati all’evento risuonavano gran parte delle più di 150 lingue native del Brasile, un paese inconsapevolmente poliglotta. Le più diffuse, come il ticuna, il guarani o il kaingang, hanno decine di migliaia di parlanti, ma ci sono anche la stupefacente lingua soffiata dei cacciatori ikolen, la lingua dei segni ka’apor del Maranhao e il piraha, parlato da pochissime persone nel sud dell’Amazzonia. Il Brasile, con 213 milioni di abitanti secondo i dati del 2024, è uno dei paesi più ricchi del pianeta dal punto di vista linguistico.
Molte lingue però spariscono con una velocità simile a quella della foresta tropicale. Con la morte progressiva dei parlanti, il rischio di estinzione incombe su un terzo delle lingue del paese, forse addirittura sulla metà. Alcune muoiono prima ancora di essere state documentate: nel 2022 l’indigenoTanaru, un uomo rimasto isolato per decenni in una zona di foresta protetta vicino alla frontiera boliviana, è morto senza che la sua lingua fosse studiata.
È difficile combattere contro una simile ecatombe, in corso da molto tempo. Secondo l’antropologo brasiliano José Ribamar Bessa Freire, specialista di lingue native, negli ultimi cinque secoli il Brasile ha vissuto un glotticidio, cioè “un’azione deliberata per far scomparire una o diverse lingue”. Nel paese tra l’80 e il 90 per cento delle 1.500 lingue parlate prima dell’arrivo dei colonizzatori è scomparso. “È stata una vera e propria campagna di sterminio”, sottolinea Bessa Freire.
Nel 1758 il marchese di Pombal, segretario di stato per gli affari interni del regno di Portogallo – il capo del governo – impose il portoghese come lingua dell’amministrazione, dell’istruzione e della vita pubblica nelle colonie. Il tupi, un dialetto indigeno usato dai missionari gesuiti nella loro catechesi, fu vietato. L’alfabetizzazione degli “indiani”, da quel momento, sarebbe avvenuta solo nella lingua de I Lusiadi, il poema epico di Luís de Camões. La situazione è rimasta invariata per più due secoli, fino alla stesura della costituzione brasiliana del 1988, alla fine della dittatura militare.
La costituzione riconosce pienamente le lingue native e dà ai popoli autoctoni il diritto di studiare nella loro lingua materna attraverso “metodi propri di apprendimento”, una definizione volutamente vaga. “Il sistema è flessibile. Ogni popolazione può decidere il formato di istruzione che preferisce. In cambio, è stata stabilita la fine esclusiva dell’oralità nelle lingue native”, sottolinea Bessa Freire. Nel 2023 il Brasile aveva più di 3.600 scuole indigene, che accoglievano 302mila bambini.
Nuove tecnologie in aiuto
Negli anni si sono moltiplicate le iniziative pubbliche e private per salvare, promuovere e sviluppare le lingue originarie. Una decina di città ha adottato uno o più idiomi nativi come lingue ufficiali accanto al portoghese e vari stati hanno seguito l’esempio. Come quello di Amazonas, che ha concesso questo status a sedici lingue autoctone.
Ma ci sono anche soluzioni più originali: nel 2023 è stato organizzato un karaoke indigeno nel museo della lingua portoghese di São Paulo. Nella città di Oiapoque, alla frontiera con la Guyana francese, è nato il teatro Maiuhi, con spettacoli nelle lingue native. A Lábrea, nel cuore dell’Amazzonia, si tiene ogni anno un campionato paumari, una lingua della famiglia arawa: “Dodici villaggi si presentano davanti a una giuria e raccontano una storia, mettendola in scena con danze, canti e pitture corporali”, spiega Edilson Rosario, 42 anni, insegnante e fondatore dell’evento.
Qualcuno spera che si crei un’accademia del nheengatu, una lingua parlata da circa ottomila persone in tutta l’Amazzonia. “Bisogna lottare affinché abbia le stesse armi della lingua dei bianchi”, dice lo scrittore Yaguarê Yama, 51 anni, che abbiamo raggiunto per telefono nel suo villaggio a venti ore di battello da Manaus. Secondo Yama il nheengatu, un miscuglio “creolizzato” tra il tupi antico e il portoghese, è “una lingua viva e moderna, che ha un futuro luminoso”.
Gruppi di discussione su WhatsApp, corsi online, intelligenza artificiale, tastiere dei cellulari adattate alle lingue native: i progetti per proteggere gli idiomi autoctoni si affidano spesso alle nuove tecnologie. La piattaforma digitale Japiim – dal nome di un uccello capace di imitare con il suo canto numerose specie di animali – riunisce 21 dizionari bilingue, compreso quello di moré-kuyubim, una lingua rara che rischia di scomparire.
“Questi dizionari partecipativi sono costruiti dai nativi e per i nativi”, spiega Helder Perri, responsabile del progetto Japiim, dove ci sono 19.753 lemmi. “Chiunque può proporre alla nostra squadra un nuovo dizionario o una nuova definizione. L’idea è di creare un modello facile da riprodurre”. L’iniziativa è sostenuta dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’istruzione, la scienza e la cultura (Unesco), che ha dedicato gli anni tra il 2022 e il 2032 alle lingue autoctone. Japiim ha inoltre il sostegno della Fundação nacional do índio (Funai), incaricata di proteggere e promuovere i diritti dei popoli οriginari in Brasile.
Nel 2023, dopo essere stato rieletto alla guida del paese, il presidente Luiz Inácio Lula da Silva ha fatto della difesa delle lingue una priorità nazionale. Ha incrementato i fondi dedicati alle scuole native e ha incoraggiato i progetti di traduzione delle principali leggi del paese a cominciare dalla costituzione, tradotta in nheengatu nel 2023. “È stata una grande sfida. Molti concetti dei ‘bianchi’ non esistono nella nostra cultura”, afferma Edson Baré, uno dei traduttori. Per rendere il significato di “presidente”, Baré ha usato la parola tuxawa, grande leader. “Ora bisogna tradurre il diritto fondiario e sociale, per consentire l’accesso degli indigeni alla piena partecipazione civica”, aggiunge.
Nel 2024 il ministero dell’istruzione ha creato una commissione nazionale per favorire la produzione di materiale didattico e letterario destinato ai popoli autoctoni. “L’epoca in cui bisognava vergognarsi di parlare una lingua originaria in pubblico è finita. Oggi i bambini possono vivere in un ambiente bilingue”, afferma Altaci Kokama, 48 anni, che dirige il dipartimento dedicato alle lingue e alla memoria nel nuovo ministero dei popoli indigeni.
Ci sono però vari ostacoli, a cominciare dalle limitazioni finanziarie. Sul campo i professori nativi si scontrano spesso la mancanza di mezzi adeguati: “Siamo costretti a usare libretti pedagogici scritti dai missionari cattolici”, dice con rabbia Edilson Rosario, professore di paumari. “I libri messi a disposizione delle autorità sono più divertenti e più gradevoli, ma sono distribuiti in piccole quantità. Al massimo un paio per ogni professore”.
Le lingue native restano molto marginali nell’insegnamento superiore. L’università di São Paulo, che ha 97mila studenti e cinquemila professori, offre un solo corso di guaraní ufficiale per cinquanta studenti al massimo. “Subiamo molti pregiudizi. Vari studenti preferiscono studiare una lingua straniera a una che esiste in Brasile da sempre”, dice con rammarico Leandro Karai Mirim Gonçalves, 30 anni, supervisore della formazione per l’università.
Nei villaggi la battaglia è altrettanto difficile. Insegnante di linguistica dell’università federale dello stato di Amapá, Elissandra Barros da Silva studia da quindici anni le dinamiche del parikwaki, una lingua della famiglia aruak parlata da alcune centinaia di persone del popolo palikur, la frontiera tra il Brasile e la Guyana francese. “Anche se la trasmissione della lingua è molto solida nelle famiglie, il parikwari è ugualmente minacciato”.
Secondo Barros da Silva, nelle città della regione esiste “una chiara gerarchia linguistica. Al ristorante, nelle banche e nell’amministrazione comunale è impossibile trovare qualcuno che parli una lingua diversa dal portoghese”. Bombardati dalla musica e dalle telenovelas in portoghese, i bambini palikur sono presi in giro quando si esprimono nella loro lingua a scuola. “Le lingue native sono escluse dallo spazio pubblico e restano relegate nella sfera privata”, sottolinea Barros da Silva. “È l’anticamera dell’estinzione”.
Come molti altri studiosi, la ricercatrice teme il ritorno al potere di un’estrema destra ispirata al presidente statunitense Donald Trump, che il 1 marzo ha firmato un decreto per proclamare l’inglese come unica lingua ufficiale degli Stati Uniti. In Brasile una misura di questo tipo avrebbe conseguenze disastrose sulla cultura indigena ma anche sulla diffusione delle notizie false. I mezzi d’informazione nelle lingue originarie, infatti, svolgono un ruolo centrale nella vita delle popolazioni isolate. “Sono stati importanti durante la pandemia per combattere le voci che circolavano sui social network e incoraggiare le persone a vaccinarsi”, spiega Juliana Baré, produttrice della radio Wayuri di São Gabriel da Cachoeira, la più grande città indigena del Brasile nello stato di Amazonas. Radio Wyuri trasmette in tucano, baniwa, nheengatu e yanomami.
Migliaia di chilometri più a sud, gli abitanti del villaggio della “bella foresta verde” guardano al futuro con ottimismo, nonostante tutto. La comunità spera di inaugurare un liceo bilingue nel 2026. Alcuni residenti sognano che il guaraní sia dichiarato seconda lingua ufficiale del Brasile. Cosa ci sarebbe di più naturale in un paese intrinsecamente polifonico? L’antropologo Bessa Freire dice: “Nel grande dizionario Houaiss, il punto di riferimento per la lingua portoghese del Brasile, 45mila lemmi su 228mila sono indigeni. Una parola su cinque”.

internazionale.it/notizie/bruno-meyerfeld/2025/05/14/brasile-lingue-arma-di-resistenza

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