Un Pontefice scelto per ricucire le divisioni, tra apertura al mondo e saldezza sui principi, di Massimo Franco

Un Papa statunitense è quasi più sorprendente di un Pontefice argentino e gesuita. E delinea una Chiesa che ha deciso di sfidare le derive della modernità, con una scelta religiosa e insieme di governo e di moderazione che è destinata a rinsaldare le certezze dottrinali. A Robert Francis Prevost è assegnato il compito di offrire un esempio di unità e di armonia a un mondo sfigurato dai conflitti; e a una Chiesa percorsa da tensioni durate troppo a lungo. Il solo fatto che dopo appena due giorni sia stata superata la soglia degli 89 voti certifica una volontà di superare le divisioni del passato che non era scontata, al massimo sperata.

Il ricucitore
Il profilo di Prevost è quello del ricucitore e del Pontefice di governo. È un Papa che ha avuto una lunga esperienza di Curia, come capo del dicastero dei vescovi. Ma è anche un ponte tra Stati Uniti e America latina, essendo nato a Chicago da una famiglia di immigrati e avendo vissuto a lungo in Perù. Ha conosciuto dunque sia i problemi che il cattolicesimo incontra nell’emisfero australe, sia le sfide poste da un Occidente aggressivo quanto declinante, sia quelle che hanno disorientato e messo in tensione le istituzioni vaticane. Il suo riferimento alla pace è il messaggio più forte, impregnato di religiosità.
E ugualmente significativo è il grazie a papa Francesco, segno di una continuità simbolica. Ma dietro si intravede la volontà del Conclave di aprire una fase del tutto nuova: a cominciare dal ruolo centrale della Segreteria di Stato, dopo anni di ridimensionamento. Uno dei punti fermi della Chiesa che verrà sarà proprio questo: ricondurre una diversità che ha sfiorato la dispersione e una sorta di «fuga da Roma» a una sintesi in grado di rispettarla e insieme di incanalarla. Si indovina una strategia di ricostruzione e di riorientamento. Significherà ritrovare il dialogo con gli episcopati mondiali che negli ultimi anni avevano vissuto un rapporto difficile col papato: un’incomprensione che non a caso ha trovato il punto massimo di crisi in quello tradizionalista statunitense: una tensione che si è riflessa anche a livello finanziario, nel calo verticale dei contributi americani alla Chiesa cattolica e al Vaticano. Un problema simile ma con contorni diversi che si presenta anche in alcuni dei Paesi dell’Est europeo e più in generale dell’Occidente.

La continuità
È prevedibile una continuità rispetto a temi come la protezione degli immigrati e dei diritti umani, e la vicinanza ai ceti più poveri: un approccio di Francesco che ha permesso di ridurre le distanze fra «Trono religioso e popolo», come è stato detto: un’eredità preziosa da non disperdere. Ma forse il compito più arduo sarà quello di amalgamare «le» Chiese cattoliche che hanno mostrato un’identità eterogenea e un’interpretazione diversa delle priorità e perfino di alcuni valori. E qui si inserisce la personalità di Prevost come uomo di mediazione e di dialogo tra le due Americhe: quella in cui è nato e quella in cui ha vissuto a lungo prima di approdare a Roma.

La collegialità
Il tema della collegialità diventa centrale, su questo sfondo: in modo molto più esigente di quanto sia accaduto nel recente passato. L’enorme sostegno che ha ricevuto Prevost appare un investimento su un futuro nel quale si tenterà in tutti i modi di calmare una Chiesa traumatizzata prima dalla rinuncia di Benedetto XVI nel 2013; poi dalla convivenza decennale tra i «due Papi». Francesco ha abbracciato ed è stato scaldato dalle folle fino alle ultime ore di vita. Ma questa capacità empatica, da qualcuno definita figlia di una cultura imbevuta di peronismo argentino, ha avuto una conseguenza paradossale: quella di dilatare senza volerlo le distanze con le istituzioni ecclesiastiche e alcuni episcopati.
Il compito di Prevost sembra essere quello di recuperare una marcata dimensione religiosa e unire i due ponti: quello col popolo e quello con una gerarchia che non sempre si è sentita valorizzata. È una risposta alta e spiazzante a una situazione difficile. Spiazzante perché dimostra la consapevolezza di dover cambiare schema, e di rispondere alle provocazioni che arrivano dal mondo alla Chiesa con una provocazione di pace ancora più forte. Avere spezzato il tabù che sembrava impedire agli Stati Uniti, prima potenza nucleare e capitalistica, di esprimere un Pontefice, significa mostrare un coraggio e una fiducia in se stessa sorprendenti.

Fiducia nel futuro
Prevost è l’americano meno americano che ci sia, è stato detto. Le sue origini familiari che mescolano nazionalità diverse indicano la capacità di parlare a tutti e con tutti. Ma da posizioni salde, anche sul piano dottrinale: un cambio di paradigma che rivendica la continuità e si proietta nel futuro. E cancella tutte le previsioni che erano state fatte sul ritorno di un italiano e sulla riproposizione di categorie fruste come quelle dei progressisti e dei conservatori; la sua identità è in realtà parte della novità che la sua elezione implica e andrà decifrata nei prossimi mesi e nel rapporto con chi lo ha eletto al Conclave.
Il nome di Leone XIV assunto da papa Prevost è un’altra indicazione significativa. Era da oltre un secolo che un Pontefice non lo sceglieva. Indica apertura al mondo e insieme saldezza sui principi. E disarma quanti in questi ultimi anni hanno pensato di potere usare una Chiesa considerata indebolita per i propri interessi. Se è vero che rispetto al 2013 esiste una realtà inedita, più incerta e pericolosa, Leone XIV si prepara a affrontarla con una Chiesa che mostra un soprassalto di fiducia nel futuro e di coraggio. E riesce a sorprendere per l’ennesima volta. Da grande istituzione millenaria.

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