Un’America così divisa non si vedeva da un pezzo: qualcuno ricorda le proteste contro la guerra del Vietnam, le battaglie per i diritti civili, i movimenti studenteschi di fine anni Sessanta. Ma una mobilitazione di massa come quella di sabato scorso, in quello che gli organizzatori hanno battezzato “No Kings Day”, o in italiano “giornata contro il re”, non si era mai vista.
Il re, presunto, è ovviamente Donald Trump che si è lanciato fin dal suo primo giorno alla Casa Bianca in una serie di misure, prese usando i poteri dell’esecutivo, e spesso ratificate da un Parlamento a maggioranza repubblicana (il Senato in realta è quasi pari 53 – 47, ma in caso di qualche franco tiratore, c’è anche il voto del vicepresidente JD Vance, che, per Costituzione, rompe la parità). E lui, Trump, questi ordini esecutivi li ha usati in numero record – ad oggi 161, in 5 mesi, mentre Biden ne firmò lo stesso numero in 4 anni di presidenza – per mettere le mani praticamente su tutto: dai tanto temuti dazi, ai licenziamenti dei dipendenti federali eseguiti da Elon Musk (quando ancora era amico suo), fino al trattamento degli immigrati.
Ed è proprio su come gestire chi viene illegalmente a lavorare qui (sembra almeno 11 milioni, di sicuro da arrotondare per eccesso) Trump – ma anche tutti i ministri di cui si è circondato, molti chiaramente incompetenti ma fedeli, e i deputati e i senatori che non si azzardano, (pena la non rielezione) a votargli contro – sta mostrando il suo volto più sfacciatamente anti-democratico, anzi, diciamola tutta, autoritario.
Ha cominciato deportando in El Salvador, tre aerei pieni di presunti criminali venezuelani, chiaramente senza processo, anche dopo che un giudice federale gli aveva intimato di riportarli indietro. Ma lì aveva comunque tenuto saldo l’appoggio popolare. Ma da lì, il famigerato ICE (il servizio federale per l’immigrazione) non si è piu’ fermato: dopo aver promesso che avrebbe mandato via solo gli elementi criminali, ha cominciato a prendere di mira gli studenti che manifestavano contro Israele, arrestandone alcuni e revocando il visto a molti altri (che con le manifestazioni poco c’entravano). Poi nel giro di poco tempo hanno cominciato a sparire vari immigrati, in tutta l’America, non solo incensurati ma anche con processi in corso o addirittura con casi già chiusi dai giudici locali. Poi l’ICE, sempre per ordine esecutivo, è discesa su Los Angeles, dove un terzo della popolazione è immigrata (regolari e non) e lì ha avuto solo l‘imbarazzo della scelta su chi far sparire nelle prigioni federali. Ma in una città dove se spariscono gli immigrati si ferma tutto (consiglio vivamente di vedere la commedia dark Un giorno senza messicani ambientata proprio nella megalopoli californiana) questi eroi del patriottismo si sono scontrati, in uno Stato che non voterebbe mai per Trump, con una protesta popolare degna dei tardi anni ’60.
Le scene di violenza le abbiamo viste tutti, e le ha viste anche Donald Trump che invece di calmare gli animi ha nazionalizzato la Guardia nazionale (che invece dovrebbe seguire gli ordini del governatore di ogni stato) e l’ha schierata contro i manifestanti. E, come se non bastasse, ha anche mandato 700 marines, che tutto dovrebbero fare meno che contenere le proteste in casa propria. Tutte cose (dai venezuelani, agli studenti, via via, fino ai marines) fatte ai limiti della Costituzione, tirandola su tutti i lati e anche strappandone qualche orlo.
Oltre alla popolazione, in California sono insorti anche i politici, nell’ordine: la sindaca di Los Angeles, Karen Bass, che ha insultato il Presidente in diretta TV; il governatore della California, Gavin Newsom, che l’ha denunciato direttamente; e il senatore Alex Padilla, che per aver interrotto il ministro della Sicurezza nazionale, Krist Noem, durante una conferenza stampa mentre diceva che il Governo “sta liberando Los Angeles!”, è stato sbattuto in terra e ammanettato dal servizio d’ordine, pur sapendo benissimo chi fosse.
A questo punto però bisogna fare un passo, o forse due, indietro: da almeno due mesi a questa parte per Trump c’è un lento ma inesorabile calo di popolarità. E’ cominciato con i dazi, non solo odiati all’estero ma impopolari anche qui; i prezzi al consumo che fanno di tutto meno che calare; l’impopolare legge di bilancio che non passa al Senato e che addirittura aliena l’amico-complice Elon Musk; infine le guerre, che aveva promesso di far smettere nella prima settimana di presidenza e che invece sono peggiorate, anzi addirittura ne sono scoppiate di nuove, come quella tra Israele e Iran in cui volente o nolente è coinvolto fino al collo. Dunque per distrarre i suoi votanti da tutti questi insuccessi, gli restava solo di prendersela con i più deboli – e più facili bersagli – quegli immigrati irregolari a cui aveva dichiarato guerra, con successo, in campagna elettorale.
Ma stavolta il re ha esagerato e i quasi sei milioni di americani scesi in piazza contro di lui sabato scorso, in oltre duemila comunità – mentre tra l’altro pioveva su tutta la costa est – dando vita alla più grande manifestazione della storia americana, gliel’hanno ricordato. Tra l’altro era anche il giorno del suo compleanno e lui aveva ordinato una bella parata militare, la prima dal 1991, al costo di 45 milioni di dollari, per festeggiare i 250 anni dell’esercito. Quel giorno pioveva anche a Washington, non tantissimo per la verità, ma lì molta gente è rimasta a casa, e i 250.000 accorsi è solo l’ultima delle tante, che ci sono state finora, menzogne del Governo, e, come sempre, smentita dalle immagini TV.
Re Donald, in verità, qualche pezzo del mantello sta già cominciando a perderlo. Ma per il prossimo voto – quello con cui gli americani rinnovano la Camera, un terzo del Senato, e in 34 Stati su 50 eleggono anche i Governatori – bisognerà aspettare il 3 novembre dell’anno prossimo. C’è tempo prima che rimanga nudo. Nel frattempo il dialogo è già stato sostituito da spintoni ai manifestanti e manette ai politici. E l’aria che tira sa tanto, troppo, di guerra civile.
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