La terza prescrizione del Giubileo ebraico ci parla del “lasciar riposare la terra”. A prima vista solo una decisione in perdita: se nell’anno giubilare non si poteva né seminare né mietere, un intero anno di raccolto veniva saltato, perdendo tutti i possibili guadagni corrispondenti. Sempre a prima vista, lasciar riposare la terra sembra un gesto passivo: un aspettare pensando ad altro, un disinteressarsi di ciò che accade lasciando che le cose vadano a modo loro. Eppure, il contadino non dimentica la sua terra mentre la lascia riposare: al contrario la vigila, la tiene in ordine, impedisce che diventi un luogo selvatico; forse mentre attende si procura nuovi strumenti per lavorarla e sementi migliori; certo progetta ciò che farà e immagina con trepidazione i raccolti futuri. La sua attesa e la sua cura preparano la terra al momento gioioso della semina nuova, che darà i frutti migliori. Viviamo oggi in un tempo frenetico e puntiforme sospeso sul nulla: tutto muta continuamente, e viene macinato e inghiottito con incredibile velocità senza riuscire a lasciare una traccia durevole. Viviamo in una perenne sensazione di fretta; non abbiamo più il tempo, e abbiamo perso anche la speranza dell’eternità: ci rimane solo il movimento, unico modo per non venire travolti dalla paura dell’irrilevanza. Agitarsi è diventato il solo modo per sentirsi vivi. Nel tempo dell’impazienza che investe anche tutti i nostri rapporti, la prescrizione giubilare ci ricorda che i processi della vita richiedono invece ciascuno il proprio tempo, e che il volere “tutto subito” è una pretesa che ci danneggia.
Soprattutto le relazioni importanti, come quelle che costruiscono la famiglia, richiedono la pazienza dell’attesa: nel rapporto con noi stessi, nella coppia, con i figli, con gli anziani. Nel ciclo di vita familiare ci sono poi dei tempi di attesa speciali, che chiedono di venire ripensati e rivalutati: penso ad esempio al tempo che precede il matrimonio, al tempo che precede la nascita, e al tempo della vecchiaia, che precede la morte. Sono tutti tempi di preparazione a qualcosa di importante, tempi preziosi per acquisire la consapevolezza di ciò che accade e vivere la vita in modo pieno, consapevole e gioioso. Il primo di questi tempi di attesa mi sembra anche quello oggi meno compreso, e che più rischia di scomparire del tutto: parlo del tempo che precede la celebrazione del matrimonio, e che una volta veniva definito tempo di fidanzamento. La parola fidanzamento è tra le parole ormai quasi completamente dismesse, perché ha un suono divenuto polveroso, che richiama, forse anche giustamente, modalità di relazione rigide e poco spontanee, formali e del tutto sorpassate. Prima di archiviarla del tutto però può essere utile dare un’occhiata alla sua etimologia per comprenderne il senso originario: scopriamo così che “fidanzamento” deriva dal verbo latino “fidere”, che significa avere fede, confidare. È dunque un termine che si lega strettamente al concetto di fiducia, tema di grandissima rilevanza in tutte le relazioni importanti. Il fidanzamento dovrebbe essere perciò un tempo di costruzione della fiducia: un tempo utile e necessario per capire con il cuore e con l’intelligenza se vogliamo e possiamo fidarci l’uno dell’altra, per arrivare a prometterci un amore che sarà per sempre. Un tempo per comprendere ciò che ci prometteremo, mettendo insieme la testa e il cuore.
Ci sono storie d’amore che iniziano in modo passionale, e hanno bisogno di passare al vaglio della ragione prima di diventare promessa definitiva; ce ne sono altre che iniziano in modo più pacato e progettuale, perché magari l’incontro è avvenuto sui banchi di scuola e l’amore è cresciuto a poco a poco e ha dato vita a una relazione che dura da molti anni. Ci sono storie in cui persone già più adulte si incontrano nel condividere interessi e valori, e pensano di fare famiglia insieme; ce ne sono altre di persone che si sono innamorate e hanno iniziato a convivere, e magari hanno già messo al mondo dei figli. Comunque sia iniziata la relazione, e qualunque forma abbia preso nel tempo, se ci orientiamo verso il matrimonio arriva un momento in cui è necessario chiederci se possiamo scegliere nell’altro il compagno cui dedicare tutto l’amore di cui siamo capaci, senza lasciarci travolgere nella nostra scelta dalla passionalità, o al contrario farci schiacciare dalla sensazione che sposarsi sia diventato inevitabile. Come dice Paolo Bianchi nel suo testo “Quando il matrimonio è nullo?” il motivo prevalente di richiesta di nullità matrimoniali è legato oggi alla valutazione della capacità o meno di dare un vero consenso al matrimonio, comprendendo in modo sufficiente il suo significato. La validità del matrimonio cristiano si fonda tutta sulla libertà e sulla consapevolezza, che è l’elemento centrale per il consenso. È dunque necessario darsi un tempo speciale di riflessione: un tempo a cui servirebbe dare un nome per identificarlo, perché senza un nome le cose non possono esistere realmente. Possiamo chiamarlo o no fidanzamento, ma è un tempo prezioso, che deve precedere e non coincidere con il tempo in cui, decise le nozze, ci diamo da fare per organizzare il matrimonio. Un tempo di riflessione personale, per capire che per sposarsi non basta essersi innamorati, come non basta neppure avere buoni progetti da condividere o avere già dei figli: tutto questo è importante, ma la chiave è decidere se vogliamo scegliere l’altro come compagno di vita per sempre, con le sue doti e i suoi difetti, le sue risorse e i suoi limiti.
Perché un matrimonio possa durare per sempre bisogna in primo luogo volerlo: sembra banale ma è così. Il matrimonio cristiano, che prevede l’indissolubilità, è un progetto di vita esigente, come esigenti e talvolta difficili sono le cose davvero belle e preziose; dobbiamo però dirci e dire con maggiore chiarezza che il matrimonio religioso non è un percorso obbligato: le persone che si amano possono scegliere liberamente e legittimamente altri modi di dare forma alla loro relazione, come la convivenza o il matrimonio civile. Forse oggi può apparire bizzarro e fuori tempo pensare che qualcuno voglia e possa davvero fare scelte definitive, ma la bellezza del matrimonio sacramentale sta proprio nella sua unicità e specificità, che chiedono però di essere riscoperte e capite in modo nuovo. Forse qualcuno che mi legge si domanderà: e io, che non devo decidere ora perché mi sono sposato dieci, venti, trent’anni fa? Forse non ero consapevole pienamente di ciò che promettevo. Forse per questo ho tradito, ho amato poco, ho fatto tanti errori. Ho vissuto e vivo una vita di coppia nell’abitudine, e continuo a fare la fantasia che avrebbe potuto andarmi meglio… Oppure: mi sono sposato e forse non ero davvero innamorato/a. Mi è successo dopo, e se sono rimasto è per i figli… O ancora: in questo matrimonio ho dovuto sopportare e perdonare troppe volte, ora il mio cuore è come congelato… Forse non ho mai davvero scelto la persona con cui vivo da tanti anni…
A tutti noi così come siamo l’anno giubilare, che è un anno di Grazia, dice: nella precisa condizione in cui ti trovi, se lo vuoi oggi puoi rinnovare la tua scelta in modo consapevole, perché oggi è il tempo propizio. Il Giubileo ci invita a prendere un tempo per pensare, e per provare a guardare da una nuova prospettiva all’altro che ci è vicino, che come noi è una persona unica, complessa e imperfetta, e che con noi condivide tante cose della vita; proprio quell’altro con cui ogni giorno ci scontriamo e incontriamo, ci comprendiamo e fraintendiamo, litighiamo e facciamo pace. Non esiste un matrimonio perfetto, ma possiamo scoprire che l’altro è la sfida giusta per noi solo se lo scegliamo davvero: anche se ci farà ancora arrabbiare, perché ha lati amabili e lati detestabili, solo se impariamo ad accoglierlo senza se e senza ma potrà diventare per noi un alleato vero e prezioso.
La vita di ogni giorno mette spesso in contraddizione la realtà della nostra esperienza con i princìpi in cui crediamo. Succede che non sappiamo come legare tra loro queste due dimensioni, e come declinare nelle nostre vicende la bellissima visione antropologica di cui siamo portatori. Se non vogliamo però che la fede si trasformi in semplice pratica religiosa incapace di influire sulla vita, dobbiamo accettare la sfida di una riflessione senza paure né preclusioni, in grado di toccare in primo luogo la concretezza delle nostre relazioni, iniziando da quelle familiari. Il Giubileo con le sue prescrizioni antiche e sempre nuove ci offre una traccia per fare insieme questa riflessione. Perché l’anno di grazia che stiamo vivendo parla a ogni dimensione della nostra vita, in primis le relazioni che intessono la nostra vita di ogni giorno. Ci conduce in questo viaggio la neuropsichiatra Mariolina Ceriotti Migliarese, firma cara ai lettori di Avvenire per altre sue fortunate serie di articoli che hanno poi dato vita ad apprezzati libri (come «L’alfabeto degli affetti» e «Perfetti imperfetti»).
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