Steve Bannon, il populismo degli slogan senza soluzioni (che però funziona), di Lidia Baratta
«Trump, Bolsonaro e Salvini sono i politici più importanti al mondo». Nella santissima trinità sovranista dell’ex consigliere di Donald Trump Steve Bannon, l’europeista Carlo Calenda non compare – nonostante la foto in costume postata su Twitter. Il dibattito “Sovranismo vs Europeismo” andato in scena tra i due nella sede dell’agenzia “Comin&Partners” ha raccolto nel cuore di Roma giornalisti, uomini delle istituzioni, da Equitalia a Bankitalia, e pure qualche volto politico dei Cinque stelle della passata legislatura. Tutti accorsi a sentire le teorie della star del sovranismo venuto dagli States, che ora punta a riorganizzare la destra nazional populista per conquistare Bruxelles.
«Ho lavorato al progetto di un movimento populista negli ultimi dieci anni, per questo Trump mi ha chiamato per la sua campagna. E l’Italia, con la Lega e i Cinque Stelle, in questo progetto è centrale», spiega Bannon.
«Il sovranismo non fa paura. Gli italiani rimangono fortemente europeisti», esordisce Calenda, a pochi giorni dall’annuncio della sua candidatura come capolista Pd del Nord Est. Ma controbattere, difendendo l’Europa, agli slogan antieuropeisti che hanno fatto il successo dei partiti populisti è impresa ardua. «I tecnocrati di Bruxelles e di Francoforte hanno distrutto un’intera generazione di italiani», ripete più volte Bannon. «La Bce con il Quantitative Easing ha salvato l’Italia», spiega Calenda.
L’“America First” isolazionista da una parte. La «globalizzazione con delle regole» e gli accordi commerciali dall’altra. È una sorta di derby. Bannon cita più volte Salvini (che è «più populista di Trump”, come ha spiegato a El País), molto meno i Cinque Stelle. Racconta di essere in contatto continuo con i membri della Lega. E di aver sconsigliato loro di firmare il memorandum con la Cina. «È un terreno scivoloso, la Cina pratica un capitalismo predatorio per creare delle colonie», dice Bannon. «Ma è solo un memorandum of understanding, che ora va riempito. Se Luigi Di Maio ha detto che porrà cento domande sulla due diligence, io dico che dovrà porne mille». Il disaccordo sull’intesa Italia-Cina è l’unico punto d’incontro con Calenda, che lo critica però da un altra prospettiva: per «la rottura del fronte europeo, perché non possiamo contenere la Cina se va a pezzi l’Europa. Di fronte all’espansione cinese, gli Stati da soli collassano».
Ma è proprio «la necessità di Stati più forti» e di una «Europa delle nazioni» quello che Bannon ribadisce più volte nel corso del dibattito, continuando a sorseggiare la sua Redbull anche quando la discussione si accende. L’ex consigliere di Trump sfodera uno a uno gli slogan contro la «dittatura di Bruxelles e Francoforte» e il «neofeudalismo del partito di Davos». «I cittadini scelgono il primo ministro», ha detto, «ma poi tutto il resto lo decidono i tecnocrati di Bruxelles, rigettando le volontà democratiche degli italiani. Se l’Italia non cresce e i giovani vanno via è colpa dell’Europa. L’unica cosa da fare è riprendersi la libertà e far tornare il potere nelle mani degli italiani». Da parte sua, Calenda sarcastico esorta Bannon a «studiare di più se vuole diventare l’advisor» dei nazionalisti, ricordandogli come l’Italia in realtà «non deve chiedere nessuna competenza indietro» («fammi un solo esempio», gli chiede più di una volta, senza avere risposta). «Possiamo fare anche più deficit, ma poi nessuno compra il nostro debito».
Eppure la stessa Lucia Annunziata, direttrice dell’Huffington Post, che modera l’incontro, fa notare come «molto di quello che dice Steve Bannon incontra la percezione di moltissimi italiani. Molte delle cose che ripete sono il pane e il burro del cambiamento che c’è stato in Italia». Loro, ammette Calenda, sono stati «molto smart a cavalcare alcuni problemi. Noi siamo stati molto ingenui a non accorgercene prima. Ma non hanno alcuna soluzione». E rivolgendosi a Bannon: «Non stai più all’opposizione, stai al governo. Come risolvete i problemi? Non certo tagliando le tasse ai più ricchi come ha fatto Trump».
Ma con le elezioni europee dietro l’angolo, Bannon prevede un «terremoto». I «partiti sovranisti potranno arrivare fino al 50% del Parlamento europeo». Calenda si tiene su un più basso 10-15%: «Non saranno in grado di fare assolutamente niente e continueranno a dire che è tutta colpa dell’Europa». Ma sulle ricette economiche sovraniste, Bannon ammette che «queste forze non hanno ancora un piano focalizzato», illustrando vagamente un programma di vendita di asset e privatizzazioni. Ma, precisa, «credo che nessun leader voglia uscire dall’Europa». Però la prima cosa da fare sarà una “deregulation”, tagliando «le 35mila pagine di regolamenti europei» perché il potere «possa tornare nelle mani degli Stati nazione, a partire dall’immigrazione». Senza sapere che, in realtà, sull’immigrazione già oggi sono gli Stati che decidono, e non l’Europa. E questo è il problema. «Quindi», conclude Calenda, «mi stai dicendo che se Salvini e Orban vinceranno, lasceranno le cose esattamente come stanno. Perché già oggi abbiamo l’Europa delle nazioni».
https://www.linkiesta.it/it/article/2019/03/26/steve-bannon-carlo-calenda/41559/
Sovranismo competitivo, di Ugo Tramballi
Nel suo disordine, il quadro internazionale sembra piuttosto chiaro. Esiste e cresce sempre di più un blocco sovranista con una visione e una strategia condivise: minare l’attuale ordine internazionale liberale e sostituirlo con qualcosa d’altro. Chi condivide questo programma è eccitato e convinto di essere a un passo dal successo; chi crede nell’internazionalismo, nel modello multilaterale fondato sulle alleanze e sulle frontiere aperte, è depresso.
Ma è su quel “qualcosa d’altro” che può contare chi, come me, appartiene alla seconda categoria, quella dei cittadini del mondo. Una volta raggiunto l’obiettivo comune, i sovranisti hanno solo ambizioni individuali: vogliono liberarsi dei lacci dei trattati e delle alleanze, per farsi i fatti loro nazionali. E qui, per dire una banalità, casca il sovranista.
Immaginate che Marine Le Pen vinca le prossime presidenziali. Pensate che la sua Francia sarebbe più amica dell’Italia di Matteo Salvini? Che aprirebbe la frontiera di Ventimiglia o Bardonecchia, che ci lascerebbe fare in Libia e che sarebbe felice di sostenere il debito italiano, nella lunga attesa che crolli l’Unione Europea? Probabilmente i nostri sovranisti finirebbero col sentire la mancanza di Macron.
Questa è solo un’ipotesi. Altrove c’è già qualche fatto. Vladimir Putin sta scoprendo che Victor Orbàn non è il suo “agente all’Avana”, la punta avanzata filo-russa dentro Nato e Ue. Anche gli ungheresi hanno espulso un diplomatico russo dopo il caso Skripal, sono d’accordo con Trump che gli europei della Nato debbano spendere di più nella difesa, hanno accolto con entusiasmo Steve Bannon.
Alla fine anche i sovranisti hanno ben presente la loro storia nazionale. E qualsiasi sovranista dell’Est europeo, se può scegliere fra l’America di Trump e la Russia di Putin, preferisce la prima. Al sovranismo americano dell’Est Europa non importa nulla; quello russo è storicamente molto più interessato a condizionare la loro sovranità.
Per tornare all’Italia, Orbàn è contento che Lega e Forza Italia abbiano votato al Parlamento europeo contro la messa in mora dell’Ungheria. Ma fino a che lui e gli altri sovranisti dell’Est succhiano come saprofiti le risorse messe loro a disposizione dalla Ue, non saranno contenti che il nuovo governo italiano metta in pericolo la stabilità economica dell’Unione.
“Sebbene la Turchia non sia una superpotenza economica e militare, è emersa come leader globale diventando parte della soluzione in Iraq, Siria e in altri luoghi”, scrive Recep Erdogan su Foreign Affairs. Solo una conferma di una tendenza già nota: la smodata ambizione della Turchia. Quando Erdogan manifesta il suo sovranismo allargato, pensa alla Russia e all’America come partner occasionali allo stesso livello. C’è l’accordo di Sochi con Putin e c’è quello di Manbij con gli americani. Marc Pierini, ex diplomatico della Ue e commentatore di Carnegie, lo definisce "ruolo diplomatico assiale, quello di essere una potenza nel mezzo". Cioè farsi i fatti propri con stile.
L’esempio più limpido di sovranismo competitivo sono le ambizioni dell’Arabia Saudita. Il principe ereditario Mohammed bin Salman ha detto chiaramente che se l’Iran avrà la bomba atomica, anche Riyadh farà la sua. Preparandosi all’eventualità, MbS vuole che qualcuno gli costruisca 16 centrali nucleari (civili ma il passaggio al militare non è difficile). Donald Trump è pronto a firmare un accordo. Alle opposizioni del Congresso, il presidente risponde che se non le costruiranno gli americani, lo faranno i cinesi.
A questa logica si oppone Bibi Netayahu, sovranista ante litteram, che non vuole altre atomiche in Medio Oriente. Se gli iraniani riprenderanno il loro programma nucleare, spinti dal fallimento degli accordi internazionali silurati da Washington, anche i sauditi avvieranno il loro. Così probabilmente farà l’Egitto, altro simbolo d’illiberalità. E a quel punto gli israeliani renderanno ancora più efficace il loro arsenale.
Ecco quello che accade nella comunità sovranista dell’ognuno per sé, qualsiasi cosa accada. Se qualcuno sa come fermare il treno, si faccia avanti.
https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/sovranismo-competitivo-21379