Salario minimo: la direttiva per una transizione sostenibile ed inclusiva, di Sara Occhipinti
È questa la proposta del Parlamento Europeo che il 25 novembre scorso ha aperto i negoziati con il Consiglio europeo. L’obiettivo è quello di stabilire un livello base di protezione salariale in tutti gli Stati membri, per garantire standard di vita dignitosi ai lavoratori e alle loro famiglie e contrastare la povertà lavorativa.
Con il termine “salario legale” si intende la previsione per legge del costo minimo consentito per la prestazione di attività lavorativa. A gennaio 2021 sono 21 su 27 gli Stati UE che hanno previsto un salario minimo nazionale. Secondo i dati Eurostat del 2021, il Paese con il minimo salariale più basso è la Bulgaria (con 332 Euro) mentre quello più alto è il Lussemburgo (con 2202 Euro). Italia, Danimarca, Cipro, Finlandia, Austria e Svezia non hanno ancora introdotto il salario legale. Si è osservato che i Paesi che non dispongono di un meccanismo di salario minimo legale sono anche i Paesi dove è più larga la percentuale di rapporti di lavoro subordinato disciplinati attraverso la contrattazione collettiva.
Transizione e impatto sul mondo del lavoro
Ma quali sono le ragioni che hanno spinto l’Unione Europa ad occuparsi della questione del salario, affidata finora all’autonomia degli Stati?
La manovra in atto è finalizzata a correggere l’impatto sul mondo del lavoro che la transizione digitale produrrà nei prossimi dieci anni, all’esito di un lungo periodo di recessione, e della crisi generata dalla pandemia. Nell’arco temporale che va dal 2008 al 2013, in piena recessione e contrazione dell’occupazione, la domanda di lavoro è stata sempre più debole nella fascia centrale della distribuzione salariale. Le prestazioni lavorative sono transitate dai settori della costruzione e della produzione a quello dei servizi, e questa tendenza sarà ulteriormente rinforzata dalla risposta alla pandemia.
Sono sempre più elevate le quote di lavoro precario, comprendenti part time, stagionali, interinali: lavoratori per i quali è già difficile organizzarsi e lottare per i contratti collettivi. Il 60% dei lavoratori è “involontariamente prigioniero di un lavoro a tempo determinato”. Le percentuali di transizione sono basse nei paesi con alti livelli di occupazione a tempo determinato. Le amministrazioni pubbliche fanno affidamento sui lavoratori temporanei per sostituire piano piano i dipendenti, imponendo condizioni di lavoro precari.
Nascono poi nuovi lavori, che si discostano dai modelli tradizionali e sono coperti in misura minore dalla protezione sociale e dalla contrattazione collettiva, e tendono ad essere impiegati più diffusamente in tempo di crisi. La diffusione del lavoro atipico, come quello di stagisti, tirocinanti, apprendisti, riders, lavoratori di piattaforma, lavoratori in occupazione protetta, a richiesta, intermittenti, a voucher… ha portato ad un indebolimento del ruolo dei sindacati e ad uno svuotamento dei contratti collettivi.
Per una ripresa sostenibile ed inclusiva è necessario fronteggiare le disuguaglianze nel lavoro: giovani e donne, lavoratori anziani, migranti, genitori single, disabili, lavoratori a bassa qualifica , lavoratori agricoli e stagionali, rappresentano gruppi di lavoratori vulnerabili che in genere percepiscono una retribuzione non conforme al minimo necessario per vivere dignitosamente. Nei paesi in cui la protezione del salario minimo deriva solo alla contrattazione collettiva, è stato stimato che la quota di lavoratori non coperti da adeguate tutele vari dal 2% al 55% di tutti i lavoratori.
Il Parlamento Europeo, nella risoluzione di dicembre 2020, prospetta un futuro in cui la polarizzazione del lavoro e le forme di occupazione atipiche aumenteranno grandemente nella fascia più alta e in quella più bassa dello spettro delle competenze. Non vanno dimenticati i lavori poco qualificati che sono e saranno sempre essenziali per le società e meritano una paga e condizioni di lavoro dignitose.
Il quadro attuale fa emergere il divario reddituale tra lavoratori e lavoratrici, dove le donne rappresentano il 60% dei lavoratori a tempo parziale e sono state più colpite degli uomini dalle conseguenze economiche della pandemia. In questo scenario, la proposta di direttiva sul salario minimo risponde all’urgenza di apportare correttivi per una transizione giusta e sostenibile.
La direttiva sul salario minimo
Il diritto al salario minimo trova fondamento normativo nel Principio n. 6 del Pilastro europeo dei diritti sociali secondo cui “i lavoratori hanno diritto a una retribuzione equa che offra un tenore di vita dignitoso. Sono garantite retribuzioni minime adeguate, che soddisfino i bisogni del lavoratore e della sua famiglia in funzione delle condizioni economiche e sociali nazionali, salvaguardando nel contempo l'accesso al lavoro e gli incentivi alla ricerca di lavoro. La povertà lavorativa va prevenuta”.
Cercando la base giuridica per la direttiva sul salario minimo è stato necessario superare l’ostacolo posto dall’art. 153 par. 5, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) che esclude la possibilità di emanare Direttive dell’Unione aventi ad oggetto le retribuzioni. La ragione a fondamento di questa preclusione prevista dal Trattato si trova nel fatto che la determinazione dei salari appartiene all’autonomia contrattuale delle parti sociali a livello nazionale e rientra nella competenza degli Stati membri in materia. Non è possibile dunque fissare con una direttiva un salario minimo uniforme. Il contenuto della proposta di direttiva attualmente in esame intende quindi istituire un quadro per la determinazione di salari minimi adeguati, senza tuttavia voler armonizzare il livello dei salari minimi né istituire un meccanismo uniforme per fissare i salari minimi.
Oltre ai lavoratori che hanno un contratto di lavoro definito dalla legge, dovranno rientrare nella direttiva anche tutti gli atipici, e i lavoratori autonomi fittizi, che hanno un contratto autonomo sul piano nominale ma in realtà finalizzato ad eludere obblighi legali o fiscali. Scopo della direttiva sarà anche quello di incrementare e valorizzare il ruolo della contrattazione collettiva portandola almeno all’80% dei lavoratori ed incentivando il livello di affiliazione ai sindacati.
La convinzione espressa dal Parlamento è che la protezione del salario minimo attraverso i contratti collettivi sia vantaggiosa per lavoratori, datori di lavoro e imprese. Una particolare attenzione andrà posta per evitare il rischio che nell’attuare la direttiva, gli Stati pongano inutili vincoli amministrativi, finanziari e giuridici a svantaggio delle micro, piccole e medie imprese già in forte sofferenza. Sarebbe opportuno, come previsto in alcuni emendamenti alla proposta di direttiva, monitorare l’impatto della direttiva sulla piccola/media impresa e in caso di effetti sproporzionati, imporre agli Stati membri di prendere adeguate misure di sostegno.
https://www.altalex.com/documents/news/2021/12/01/salario-minimo-direttiva-per-transizione-sostenibile-inclusiva