Riforma della giustizia: Camere e toghe alla prova, di Giovanni Bianconi
Al termine di una lunga gestazione, complice l’intermezzo quirinalizio, il governo ha partorito la riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario, terzo capitolo dopo quelle del processo penale e del processo civile. Un traguardo di cui la ministra della Giustizia Marta Cartabia può essere soddisfatta, e con lei il presidente del Consiglio Mario Draghi che le ha dato sostegno e copertura. Soprattutto in quest’ultima fatica, quando le difficoltà a tenere insieme una maggioranza tanto ampia quanto variegata al limite della contrapposizione, sembravano insuperabili.
Invece proprio la tenacia della Guardasigilli e la determinazione del premier hanno avuto ragione su perplessità e contrasti. Anche attraverso interventi drastici rispetto a questioni sulle quali i partiti hanno battagliato fino all’ultimo: ad esempio l’equiparazione (a proposito di commistioni tra magistratura e politica) tra toghe elette in Parlamento o negli enti locali, o al vertice di qualche istituzione, e toghe chiamate a svolgere funzioni come quella di ministro, sottosegretario o assessore; a fine mandato varranno per tutti le stesse regole, niente più ritorno alle funzioni giurisdizionali. Ma non tutti i ministri erano d’accordo, perché c’era chi riteneva (e ritiene tuttora) che un conto è partecipare alle competizioni elettorali, magari sotto le insegne di un partito, e un conto è prestare la propria esperienza di tecnico in un ministero o in un assessorato.
Alla fine è prevalsa la soluzione più radicale, e vedremo come andrà in Parlamento. Su questa e su altre questioni, che sono di sostanza ma pure d’immagine: il tema delle «porte girevoli», al momento, riguarda pochissimi magistrati tra ordinari e amministrativi (due deputati nazionali, un eurodeputato, un presidente di Regione, più una ventina o poco più tra eletti nei consigli regionali o comunali e ruoli apicali in ministeri e enti locali). Dunque vale più il principio che la reale consistenza del problema.
Ora la sfida diventa la discussione in aula. Ieri il maxi-emendamento è stato approvato all’unanimità dal Consiglio dei ministri con l’impegno di Draghi e Cartabia di rimanere aperti al contributo di Camera e Senato, dove il testo non arriva blindato e non dovrebbe calare la scure della «questione di fiducia» che interrompe ogni discussione mettendo in gioco il destino del governo. Una scelta significativa e coraggiosa, che risponde al monito del capo dello Stato al momento del suo reinsediamento: deputati e senatori devono avere la possibilità di intervenire sulle leggi, senza essere relegati al ruolo di chi appone un timbro su decisioni concordate a palazzo Chigi.
È giusto, ma davanti al Parlamento in seduta comune Sergio Mattarella ha ricordato un’ulteriore esigenza: «È indispensabile che le riforme annunciate giungano con immediatezza a compimento». Si riferiva esplicitamente al Csm, che di qui a sei mesi dovrà essere rinnovato attraverso nuove elezioni e sarebbe assurdo andare a votare con le vecchie regole (che hanno provocato le degenerazioni che tutti sappiamo, snaturando il Consiglio in carica travolto da scandali e dimissioni) perché non s’è fatto in tempo a varare le nuove. Ma anche il resto degli interventi non può tardare, per contribuire a dissipare la diffidenza dei cittadini verso la magistratura e farle riacquistare la credibilità perduta, come auspicato dal presidente della Repubblica.
Dunque tocca al Parlamento fare in modo che il governo non sia costretto a ricorrere alla fiducia per condurre in porto la riforma, con una discussione approfondita e serrata quanto si vuole, che però non deve trascendere in un regolamento di conti tra forze politiche che da trent’anni battagliano sulla giustizia, o in qualche tentazione di rivalsa sulla magistratura. Che finirebbe per allungare i tempi e travisare (se non tradire) il senso della riforma.
Tuttavia sarebbe opportuno che la stessa magistratura prendesse spunto dalla mossa del governo per trarne qualche conclusione rispetto al proprio assetto e ai propri comportamenti. Non sappiamo se le riforme elettorali e le nuove regole sulle nomine per i vertici di procure e tribunali, o sulla valutazione della professionalità dei giudici, saranno in grado di frenare le degenerazioni del correntismo e soprattutto del carrierismo dei singoli, fenomeno che negli ultimi tempi è diventato forse il più preoccupante.
Si vedrà alla prova dei fatti. Sappiamo però che oltre alle riforme servirebbe un’autoriforma delle toghe, che passa per il «recupero del profondo rigore» invocato ancora da Mattarella. I magistrati lo proclamano a ogni occasione, ora è venuto il momento di farlo.
https://www.corriere.it/opinioni/22_febbraio_11/riforma-giustizia-camere-toghe-prova-be107246-8b6d-11ec-8ff0-286fb7a9f896.shtml