Quello strano fiuto per il fenomeno umano, di Davide Rondoni
Siamo in un cambio d’epoca, dicono in tanti, dopo che l’ha detto il Papa. La crisi convulsa della globalizzazione economica, le innovazioni tecnologiche, le urgenze climatiche e la presenza di fenomeni legati a questi elementi, come le grandi migrazioni, rendono evidente la constatazione. Sarebbe opportuno che accanto e insieme alle letture dei grandi leader religiosi la cultura esprimesse e leggesse i fenomeni in modo da orientare pensieri e scelte.
Qualcosa sta avvenendo, ma, specie nella cultura italiana si assiste a una superficialità di lettura che ritengo figlia di una immediata smania politica, fino ai limiti della confusione tra cultura e propaganda.
Basterebbe aver letto le pagine di Toqueville sulle interiori crisi del sistema cosiddetto democratico (sono pagine del 1830 circa) o di Huizinga sull’avvento dell’uomo-massa (pagine di quasi un secolo fa) per vedere in alcuni segni attuali (come ad esempio il fenomeno sommariamente detto del “populismo”) non delle novità causate da recentissimi fatti politici, ma le ultime conseguenze di problemi non affrontati.
I poeti, si sa, non sono degli analisti sociologici né dei politici, ma hanno uno strano fiuto per il fenomeno umano e il suo svolgersi nella storia. E allora forse riprendere certe osservazioni di Eliot o di Baudelaire potrebbero essere utili. Quando ad esempio, un secolo fa, nel suo poemetto capolavoro Eliot mette in scena la società londinese alza una domanda drammatica: «È l’umanità che ha abbandonato la Chiesa o è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità?».
Dalla diminuzione di una centralità della esperienza cristiana nella società contemporanea discende non solo quel che Eliot chiama l’avvento di tre sole divinità «l’usura, la lussuria e il potere», ma anche la perdita di alcuni frutti che si perdono, segando il ramo dal quale sono sgorgati.
Oggi la stessa retorica dei diritti della persona appare luogo di confusione e malinteso e di scontro, essendosi persa la radice da cui scaturisce l’affermazione del valore della persona. Appaiono per ciò stesso come inefficaci esercizi retorici i richiami a valori come la condivisione, la solidarietà, la fratellanza i quali, pur se corrispondono a naturali istanze della creatura umana, d’altra parte, privi di una cultura e di una radicale esperienza della loro scaturigine, sono più fragili e inefficaci.
Impressiona vedere come in molti campi (dai coaching, a psicoterapeuti, e persino nella politica) siano in uso termini e categorie che provengono dalla vita cristiana ma come privati del loro centro e del loro vero significato. Sono come fiori splendidi a cui non arriva più linfa vitale.
Chiamano modernità la eliminazione di Dio e del peccato originale, aveva detto con fenomenale lucidità il cristiano Baudelaire, «maledetto» in quanto cercatore di assoluto nella Parigi borghese che cullava sogni di Paradiso in terra. La lucidità del grande poeta — che patì una sofferenza dell’epoca negata ai giornalisti, secondo una definizione di TS Eliot — trova una eco in quella del nostro Pasolini che, inascoltato profeta sia nella cultura comunista che cattolica, denunciava nella perdita del «sacro» uno degli elementi della omologazione imposta dal mito consumista.
Una conseguenza della espunzione della esperienza religiosa e anche la semplificazione della lettura dei movimenti collettivi. Come è stato un errore ritenere l’economia la sola levatrice della storia, così ora si leggono taluni fenomeni con categorie della politica novecentesche (ancora c’è chi parla di destra e sinistra...) o con meri elementi psicologici.
Così spesso la “psicologia delle folle” viene letta solo con criteri che non leggono del tutto le aspirazioni e gli smarrimenti dell’epoca contemporanea. Pensiamo davvero che l’individuo insoddisfatto dalle promesse della democrazia (già preconizzato da Toqueville) sia mosso solo da appetiti materiali e da timori legati alla propria sicurezza? O forse più determinante è lo smarrimento circa la propria identità di creatura?
È stata sostituita da identità via via meno certe, quella di cittadino e poi dalle varianti di identità individualistica proposte (e quasi imposte attraverso la cultura e il gusto e poi il diritto dalla filosofia gender dominante), identità parziali e rigide pur nella loro dichiarata fluidità, rigide per il loro vincolante legame con la sfera biologica o morale o, d’altra parte, etnica o “tribale”.
Da questo punto di vista, sono quasi divertenti i lamenti di un establishment culturale che non solo in Italia ha puntato in questi anni su parole d’ordine come “comunicazione” invece di cultura, “autodeterminazione” invece di appartenenza e comunità, “legalità” invece di giustizia, "casta" invece di politica, e che assiste oggi a una eterogenesi dei fini: questi concetti finiscono per nutrire i sentimenti di una "folla" che non li riconosce più riferimento attendibile.
L’originalità della lettura cristiana è urgente, ma può vivere solo legata a una esperienza viva e scandalosamente affascinante.
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