"Pietà l’è morta…”, di Adelina Bartolomei
Nessuno può reclamare questi morti per dar loro sepoltura, un gesto che fa parte della cultura degli umani fin dalle origini. Nessuno li reclamerà, perché in un caso sono irriconoscibili e nell'altro scomodi. E si spera che i caduti abbandonati al fresco non fossero specificamente i mercenari, gente che si può usare e gettare, che può essere abbandonata come le carcasse dei carri armati. E guardiamo anche il volto quasi imberbe del soldato russo, che ha freddato un civile (e ora ha la fortuna di essere civilmente processato ), ma ci spiega che è stato ingannato...che il loro compito doveva essere solo di spaventare gli Ucraini, ma comunque lui ha ‘obbedito agli ordini': un'espressione che non avremmo voluto più sentire dopo Norimberga.
E i sepolti vivi dell'acciaieria Azovstal, destinati a scomparire senza combattere, senza essere processati, solo oggetto di trattative diplomatiche che al momento escludono di tirarli fuori vivi...perché bisogna anche vendicarsi, da una parte, e forse dall'altra dare un segno di distanza, dopo averli comunque utilizzati come combattenti. Ma senza di loro si diventa più presentabili.
L'odio assassina a lungo. Noi qui stiamo parlando di long-covid, ma ci sarà una lunghissima scia di odio, e quando la guerra sarà ufficialmente finita, continuerà forse per generazioni.
Pure in molte guerre sono accaduti episodi che facevano sperare che non tutto fosse stato distrutto nell'animo umano. Ricordiamo i racconti di alcuni Natali al fronte nella Prima guerra mondiale quando si stabiliva una tregua e le due parti in alcuni casi fraternizzavano...Giusto per non dimenticarsi di essere uomini.
Ma qui non è accaduto, per ora. Davanti ai sacchi bianchi sono corse parole di indifferenza e un nome: erano nemici. E allora, dopo l'abbattimento delle statue, soprattutto quella che celebrava l'amicizia tra gli operai russi e ucraini ecco l'incomprensibile decisione di demolire il 'ponte dell'amicizia, (imbrattato con una Z di vernice bianca), dono degli Alpini italiani, che sulla targa avevano inciso parole, sentite e condivisibili, dedicate a tutti i caduti di quella tremenda battaglia della sacca di Nikolajewka (oggi Livenka), da cui gli italiani (che avrebbero avuto il compito di coprire l'alleato tedesco) dovettero poi ripiegare, camminando nella steppa gelata, semiassiderati, affamati, non sconfitti. Ne morirono circa 100 mila, ma tra feriti e dispersi ne possiamo contare altrettanti. È di pochi anni fa la scoperta di una grande fossa comune nei pressi di Kirov, sede di un vasto campo di prigionia, dove senza alcun dubbio sono state gettate molte centinaia di soldati italiani, in parte riconoscibili.
La 'ritirata di Russia' è ritenuta la più grave tragedia bellica che abbiamo vissuto. E a leggere i racconti scritti dai testimoni combattenti vengono i brividi. Eppure si verificarono anche inimmaginabili gesti di umanità.
Quello che ho sempre presente, e nel cuore, come il libro che lo racconta, è racchiuso nel notissimo diario di guerra di Mario Rigoni Stern(Il sergente nella neve) e vorrei che, come auspicava l'autore e testimone, potesse accadere ancora:
“Compresi gli uomini del tenente Danda saremo in tutto una ventina. Che facciamo qui da soli? Non abbiamo quasi più munizioni. Abbiamo perso il collegamento con il capitano. Non abbiamo ordini. Se avessimo almeno munizioni! Ma sento anche che ho fame, e il sole sta per tramontare. Attraverso lo steccato e una pallottola mi sibila vicino. I russi ci tengono d'occhio. Corro e busso alla porta di un'isba. Entro. Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No.
Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz'aria. Mniè khocetsia iestj, - dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio.
Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C'è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d'ogni mia boccata. Spaziba, dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. Pasausta, mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Nel vano dell'ingresso vi sono delle arnie. La donna che mi ha dato la minestra, è venuta con me come per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di darmi un favo di miele per i miei compagni. La donna mi dà il favo e io esco.
Cosi è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev'esserci stata tra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell'isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini un'armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l'uno per l'altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere”.