Per rilanciare il lavoro post pandemia l’unica strada è la formazione, di Ferruccio de Bortoli
Non si può dare torto a Maurizio Landini quando, su Repubblica, si duole del fatto che il lavoro spesso, non solo in Italia, sia semplicemente disprezzato. Una frase forte, forse eccessiva. Ma coglie nel segno. La centralità del lavoro è venuta meno con la progressiva perdita d’importanza sociale dell’impiego manuale rispetto a quello anche formalmente intellettuale. Una tendenza suicida in un Paese che ha nel mestiere d’arte, nella creatività manuale, uno storico vantaggio competitivo.
La «giungla della logistica»
Tutti i lavori sono nobili. Il segretario della Cgil sbaglia nel dare la colpa al mercato perché quello vero vive di regole e di controlli. La «giungla della logistica» è altra cosa. Al limite e, molte volte, parecchio oltre la legalità. E la colpa non è degli imprenditori. Perché quelli che sfruttano lavoratori e immigrati, senza rispetto per la loro dignità, sono semplicemente dei moderni schiavisti. Anche quando sono travestiti da multinazionali del web o semplicemente abbruttiti da una catena di subappalti e tempi infernali dettati da algoritmi. Là dove la concorrenza è virtuosa e trasparente non genera per tendenza genetica gli eccessi e le mostruosità cui abbiamo assistito. Il mercato non è fatto — come sembrerebbe lasciar intendere Landini — di soggetti che se non fossero regolati si comporterebbero come gli operatori più disinvolti e spregiudicati. Il leader della Cgil, nel sostenere la tesi — ripetiamo, in parte del tutto fondata — del lavoro disprezzato, lamenta i modesti salari, i tagli a investimenti e innovazione, la bassa produttività.
Il mondo dell’impresa ha le sue responsabilità. Ha ecceduto nelle economie sul lato dei costi (corrispondendo persino premi ai manager che riuscivano a ridurre il numero dei lavoratori). Ha privilegiato in diversi casi l’innovazione di processo rispetto a quella di prodotto, il controllo a favore della crescita dimensionale, l’impoverimento di capitale nell’azienda a beneficio di prosperi family office che investono nel resto del mondo e non creano alcun nuovo posto di lavoro nel loro Paese.
L’industria manifatturiera manca di profili adeguati
La metamorfosi nel rapporto fra capitale e lavoro non è però tutta nella direzione che teme il leader della Cgil. Anzi, il miglior capitale va alla ricerca del lavoro di qualità che spesso non c’è e non si trova. E non per colpa delle imprese. Un terzo delle richieste dell’industria manifatturiera italiana, la seconda in Europa, non è coperta da profili adeguati. Se i salari sono bassi è anche perché il grado di formazione del capitale umano è insufficiente e impreparato. I sindacati della scuola e dell’università sono sicuri di aver anteposto sempre la qualità di docenti e corsi alle questioni più squisitamente corporative? Cioè i diritti degli studenti alle rivendicazioni del personale?
L’esempio francese dovrebbe fare scuola
Qualche domanda poi sui tanti sprechi e sull’inefficienza nell’uso dei fondi europei per la formazione non è fuori luogo, visto che li gestiscono, a livello regionale, le stesse parti sociali. La produttività delle aziende aperte al mercato internazionale è decisamente superiore a quella dei concorrenti internazionali. Quella totale dei fattori, invece — che non aumenta da un ventennio — dipende dall’arretratezza dei servizi (dove non c’è concorrenza e troppa mano pubblica) nei quali il sindacato ha spesso rappresentanze dominanti e contrarie a qualsiasi riforma. «È stata rilegittimata l’intermediazione della manodopera, un tempo vietata», accusa ancora Landini. Per fortuna, potremmo aggiungere. Perché i centri pubblici per l’impiego — che oggi giustamente il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, vorrebbe rivoluzionare, imprimendo una decisa accelerazione alle politiche attive con l’assunzione di 11 mila addetti — assicurano solo tra il 2 e il 3% dei nuovi collocamenti. E, soprattutto, registrano significativi successi nel cosiddetto outplacement. Cioè nella necessaria mobilità, attraverso corsi di riqualificazione, mai come in questo momento vitale, da settori colpiti dalla crisi economica e dalla pandemia, a quelli che sono protagonisti della ripresa ed essenziali nell’attuazione degli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. L’esempio francese dovrebbe fare scuola (con circa 300 mila collocamenti all’anno) e un tasso di successo dell’outplacement superiore al 90 per cento. Un mercato del lavoro più dinamico può avere certo (come avviene Oltralpe) una governance pubblica, ma sono poi le agenzie private a conoscere meglio di un centro regionale (e dei navigator) le necessità delle aziende e a seguire con professionalità i destini delle persone.
Il blocco dei licenziamenti
I sindacati chiedono, comprensibilmente, che venga prorogato il blocco dei licenziamenti. Ed è probabile che ciò avverrà solo per quelle filiere — tessile, abbigliamento, calzature, pellame — che faticano a ritrovare la crescita del fatturato. Ma il blocco non ha impedito di perdere, tra il marzo del 2020 e lo stesso mese del 2021 — come stima il Cerved — tra 1,2 e 1,3 milioni di posti di lavoro. Dunque, è stato un argine modesto. Non solo, le aziende costrette a riorganizzarsi, non potendo ridurre l’occupazione dei dipendenti con contratto a tempo indeterminato, hanno scaricato le tensioni sui giovani e sulle donne. La garanzia sui più protetti ha accentuato il grado di precarietà delle posizioni meno garantite. Un effetto non desiderato dai sindacati, ma reale. Il congelamento, con una lunga cassa integrazione, di posti ormai cancellati dal mercato salva il lavoro solo formalmente. E forse ci si potrebbe chiedere — a maggior ragione in casa sindacale — se sia quest’ultima una forma di rispetto della dignità dei lavoratori o unicamente un’illusione che si trasforma nel tempo in un inganno, specie se rallenta o scoraggia un itinerario di formazione e riqualificazione.
650 mila posti saranno riassorbiti entro la fine dell’anno
Sempre secondo il Cerved (che ha presentato uno studio in occasione di un webinar organizzato da Lhh) entro la fine del 2022 circa 650 mila posti saranno riassorbiti. Il 16,7% delle aziende — ovvero 150 mila unità — mostra una propensione alla crescita superiore a quella media del loro mercato. Stupisce che la percentuale delle imprese che possono far meglio del previsto è elevata anche nei settori più colpiti dalla pandemia, come i servizi. Ciò si traduce in una richiesta di assunzioni già superiore a quella del 2019. Le ricerche del personale, con stragrande preferenza per le competenze digitali in tutti i settori, sono semplicemente esplose. Non si richiedono solo profili elevati, ma anche manovalanza. A giudicare dai dati Cerved c’è una grande voglia di assumere, non di licenziare.
La competizione sui talenti non è mai stata così vivace. Se un posto di lavoro lo si vuole veramente, con buona volontà e disponibilità alla formazione, lo si trova con relativa facilità. E nel passaggio, ormai biblico, tra l’offline e l’online, sono i lavori manuali a riscoprire una nuova centralità che speriamo porti a migliori riconoscimenti sul piano economico e dei diritti.
https://www.corriere.it/economia/opinioni/21_giugno_30/per-rilanciare-lavoro-post-pandemia-l-unica-strada-formazione-70f37cb0-d993-11eb-9b34-ea2fae57adbd.shtml