Migranti, la strage che non ci scuote più, di Antonio Sanfrancesco
Nel pomeriggio di venerdì scorso è affondato un altro barcone di migranti nel canale di Sicilia, a circa sessanta chilometri dalle coste della Libia: la Marina militare italiana ha soccorso 135 persone e recuperato 45 corpi. Si tratta del terzo naufragio di un barcone nel giro di tre giorni, nel canale di Sicilia: mercoledì e giovedì scorso erano affondate due barche di dimensioni simili con a bordo centinaia di persone. In questi giorni la Guardia Costiera e la Marina militare sono impegnate costantemente anche in operazioni più piccole: nella giornata di venerdì, per dare l’idea, sono avvenute 17 operazioni di soccorso, mentre giovedì erano state 22, durante le quali sono state soccorse circa quattromila persone.
I superstiti del naufragio di giovedì hanno raccontato che dei quattrocento morti, quaranta erano bambini, molti dei quali neonati. In trecento, quelli che avevano pagato di meno ed erano stati fatti entrare nella stiva, sono morti intrappolati senza neanche sapere quello che stava accadendo in superficie. Un sommario bilancio dice che su tredicimila migranti sbarcati nell’ultima settimana in Italia, più di novecento non ce l’hanno fatta. Papa Francesco, incontrando un gruppo di bambini sabato mattina in Vaticano, ha mostrato loro il giubbetto di una piccola migrante siriana annegata vicino a Lesbo e regalatogli da un volontario. Un gesto simbolico per tenere desta l’attenzione su quella che il Pontefice, volato qualche settimana fa sull’isola greca per abbracciare la carne martoriata di quegli uomini, donne e bambini che l’Europa non vuole, ha definito la più grave emergenza umanitaria dalla fine della Seconda Guerra mondiale.
Gli esperti dicono che nelle prossime settimane gli sbarchi non solo continueranno ma aumenteranno. Sui giornali duecento o quattrocento morti o dispersi in mare non finiscono quasi più in prima pagina. Al massimo si dà risalto a quelle che in gergo giornalistico si chiamano “storie” come quella della piccola Favour, la neonata di nove mesi arrivata a Lampedusa dopo aver perso la sua mamma nella traversata e che ora molti vorrebbero adottare.
Di là da tutti i dibattiti politici, le tragedie dei profughi in cerca di salvezza quasi non ci scuotono più. Forse perché quei disperati non hanno né un nome né un volto. O forse perché quelle tragedie non sono più un’eccezione, sia pur frequente, bensì una regola. Sono diventati cronaca consueta alla quale ci abbiamo fatto bene o male l’abitudine. «Questa assuefazione», ha scrittoClaudio Magris, «che conduce all'indifferenza è certo inquietante e accresce l'incolmabile distanza tra chi soffre o muore, in quell'attimo sempre solo, come quei fuggiaschi inghiottiti dai gorghi, e gli altri, tutti o quasi tutti gli altri, che per continuare a vivere non possono essere troppo assorbiti da quei gorghi che trascinano a fondo. È giusto ma è anche facile accusarci di questa insensibilità, che riguarda pure me stesso mentre sto scrivendo queste righe e tutti o quasi tutti coloro che eventualmente le leggeranno».
L'assuefazione alla guerra, alla violenza, alle tragedie del mondo alla fine s'impone da sola ma è anche talvolta l’anticamera dell’indifferenza. «Bisogna pur vivere », si legge in un romanzo di Bernanos, «ed è questa la cosa più orribile».
Fonte: Famiglia Cristiana del 29 maggio 2016